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lunedì 4 marzo 2019

Progetto di Programma del Partito Comunista Italiano (ricostituito)

Pubblichiamo stralcio dal Progetto di Programma del Partito Comunista Italiano (ricostituito) elaborato dalla Commissione per la elaborazione e la stesura del progetto di programma del partito comunista, a cura di Questioni del Socialismo, 2001

La crisi generale del sistema capitalistico e il declino della borghesia imperialista Nel mondo del lavoro, dove si crea la ricchezza materiale per lo sviluppo sociale ed economico, le contraddizioni del capitale si scoprono rovinose. Se le statistiche insistono sul recupero della produttività, che tradotto in termini sociali corrisponde alla diminuzione dell'occupazione e all'aumento dello sfruttamento, per contro la dinamica salariale e delle pensioni rimane al di sotto della percentuale di inflazione:cresce il numero degli infortuni mortali e degli invalidi permanenti da lavoro; aumenta la massa dei precari, dei sottopagati, dei lavoratori senza la minima tutela. La campagna martellante sulla flessibilità del mercato del lavoro e sulla competitività delle imprese, è la metafora della dichiarazione di guerra del padronato contro i diritti dei lavoratori, in difesa dei quali i sindacati oppongono solo una tenue resistenza verbale. La politica economica dei governi, siano essi marcatamente moderati o di profilo riformista, si può ricondurre. con sfumature diverse, agli interessi della borghesia imperialista. In queste condizioni, i governi sono destinati a rimanere ostaggio delle multinazionali e delle banche, e, proporzionalmente al crescere dello strapotere dei monopoli, tendono a diventarne direttamente l'esecutivo politico. Il processo di acutizzazione della crisi non può estendersi ulteriormente nell'ambito delle attuali forme istituzionali, del sistema normativo e rappresentativo. Il capitale ha bisogno di liberarsi da ogni sorta di vincolo per potersi espandere, per poter soggiogare il proletariato, mentre nell'ordinamento sociopolitico attuale vede ormai una forte limitazione. La corsa al superamento dello stato sociale, alla deregolamentazione, alla ricerca di formule istituzionali per mantenere al potere una classe screditata e parassitaria, cresce parallelamente allo sviluppo della crisi socioeconomica. La fine dell'URSS ha generato una violenta scossa nell'assetto socioeconomico del mondo intero e gli effetti a catena non hanno tardato a manifestarsi: una crisi profonda, generale, ha investito immediatamente un gran numero di paesi; il movimento di liberazione nazionale ha subito uno sbandamento grave dall'Africa all'America Latina; il capitalismo ha messo in moto un processo di ristrutturazione per adeguare le regole del libero mercato alla nuova situazione internazionale; diversi partiti di tradizione operaia, formalmente antagonisti al sistema capitalistico, hanno completato definitivamente la metamorfosi in partiti di stampo liberale. Con l'avallo della sinistra riformista sono state varate una serie di leggi che colpiscono le pensioni ed erodono i diritti dei lavoratori, i bilanci dello Stato sono stati tagliati a scapito della previdenza, delle prestazioni sanitarie e del diritto all'istruzione. Il welfare, nonostante i dati diffusi sulla crescita del prodotto interno lordo, nonostante gli incrementi dei profitti delle imprese, nonostante la produzione industriale registri costanti aumenti, nonostante la disponibilità liquida di enormi capitali che si trasferiscono da una borsa all'altra, pare sia diventato un lusso che i paesi più ricchi del mondo non possono permettersi! Tra le questioni emergenti del processo di disgregazione sociale, si distingue la questione dell'emigrazione, lo spostamento di masse di persone dai paesi sottosviluppati verso i paesi industrializzati. E' un problema che implica anche aspetti di ordine pubblico, ma le cause e gli effetti pongono sotto accusa il caotico sviluppo del capitalismo. Oggi l'immigrato è semplicemente uno strumento a basso costo da introdurre nel ciclo produttivo (o da sfruttare ignobilmente come oggetto di "piacere" per i cittadini alienati dal grigiore culturale del capitale). La preoccupazione dei neomalthusiani di controllare "la grande invasione" è controbilanciata dalla considerazione che il mercato delle braccia offre manodopera a buon prezzo. Lo squilibrio tra paesi industrializzati e paesi sottosviluppati produce un flusso simmetrico di capitali e forza-lavoro che arricchisce le multinazionali e trasforma i popoli in merce. L'esistenza di paesi economicamente sottosviluppati, afflitti da situazioni di miseria endemica, è il presupposto necessario perché gli Stati imperialisti possano sottrarre risorse umane e materiali, imporre monocolture, attuare una politica creditizia soffocante, impedire uno sviluppo equilibrato ecologicamente compatibile, schiacciare con la repressione ogni movimento di protesta contro le condizioni inumane di vita e di lavoro, rientra precisamente nel metodo di dominio dell'imperialismo che mantiene questi paesi in uno stato di assoggettamento paralizzante. Nei paesi industrializzati la situazione di tensione sociale origina grandi movimenti spontanei: operai dell'industria che lottano per la salvaguardia dell'occupazione e per gli aumenti salariali, lavoratori a riposo che protestano contro l'erosione del potere d'acquisto delle pensioni; disoccupati organizzati che invocano una politica per la creazione di posti di lavoro; studenti che manifestano per la difesa del diritto all'istruzione; centri sociali e associazioni di varia natura che contestano il sistema esprimendo il forte disagio di periferie urbane degradate; ecologisti che esigono una seria attenzione ai problemi ambientali; agricoltori e allevatori che denunciano con rabbia la politica delle Iobby dell'alimentazione. In questa situazione di malcontento generalizzato si inseriscono alcuni partiti politici il cui intento è quello di dirottare le masse verso obiettivi completamente distorti. Tutti i mezzi che la classe dominante utilizza per condizionare il proletariato, per impedirgli di reagire razionalmente di fronte al progressivo deterioramento dei rapporti sociali, possono solo rallentare ma non impedire il processo di decadimento della formazione capitalistica che già volge al tramonto. Nel momento in cui i governanti non saranno più in grado di governare, e i governati si porranno la questione di sostituire i governanti e cambiare modo di governare, la crisi del capitalismo avrà raggiunto il suo culmine. La rivoluzione tecnica e scientifica nell'ambito del dominio della borghesia imperialista, oggi dedita solamente al conseguimento del massimo profitto economico al di là del lo sviluppo necessario e compatibile con le risorse naturali che offre l'ecosistema, attrezza incessantemente l' imperialismo per la sua brama insaziabile di potere e di conquista, promuove la crisi generale del sistema, incapace di governare le forze centrifughe che esso stesso alimenta. A questo punto una domanda è d'obbligo: hanno fondamento le ragioni di coloro che oggi ritengono il capitalismo un sistema sociale prossimo al collasso? Non vorremmo commettere lo stesso errore di chi, nel movimento comunista internazionale intorno alla metà del secolo appena trascorso, era convinto che il capitalismo stesse per crollare. Una tale convinzione, alimentata da una sorta di determinismo filosofico, oltre a rivelarsi errata dal punto di vista temporale, ebbe delle conseguenze assolutamente negative nella strategia e nella tattica dei partiti comunisti sia al potere che all'opposizione. Tuttavia, oggi il quadro della situazione si presenta sufficientemente chiaro e abbastanza definito. Non si tratta di rilevare semplicemente i fatti, ma di argomentare come dietro a questi fatti si muova la società e in quale direzione. Nei paesi del capitale, dove la cibernetica, la robotica, l'informatica e la telematica trovano larga applicazione nei processi di produzione, il proletariato ha raggiunto una preparazione tecnica relativamente elevata. L'allargamento della produzione di massa, la disponibilità pressoché illimitata di ogni genere di consumo, rende apparentemente credibile la diffusione di un benessere accessibile alla maggioranza delle masse. Questo è il quadro che appare immediatamente alla superficie della società dei consumi. Ma come ha insegnato Marx, ogni scienza sarebbe superflua se i fenomeni coincidessero direttamente con la loro essenza. Limitarsi a questo tipo di valutazioni, porrebbe infatti l'osservatore in un angolo visuale angusto, poiché analizzerebbe un complesso di fenomeni in modo acritico, attribuendo al capitalismo una sembianza statica ed uniforme, che negherebbe lo stato attuale della situazione generale a livello mondiale. In sostanza, il capitalismo "dal volto umano" (se mai è esistito) è scomparso per sempre, con buona pace dei vecchi e nuovi riformisti che tentano disperatamente di temperare la barbara anarchia del libero mercato. La sete di profitto dei monopoli, ovvero la sottomissione selvaggia dell'uomo agli interessi del capitale, non conosce pudore, come dimostra la vergognosa mercificazione di centinaia di milioni di bambini. Con l'avanzamento rivoluzionario della scienza e della tecnica, che permette alla produzione di immettere sul mercato masse sempre crescenti di prodotti, le crisi da sovrapproduzione non possono che essere sempre più acute e profonde. La tensione di tutte le contraddizioni generate da un modo di produzione il cui obiettivo è solo il profitto (ovvero la creazione dei valori di scambio) converge ineluttabilmente verso un punto di rottura, chiamando il proletariato ad assumere il ruolo di classe rivoluzionaria, che dirige la trasformazione verso un sistema sociale nuovo, proiettato necessariamente alla soppressione della classe degli sfruttatori. Anche se il capitale è riuscito temporaneamente a guadagnare l'arretramento delle posizioni già conquistate dal proletariato, tutte le gravi e insanabili contraddizioni che ne determinano lo stato di strutturale instabilità permangono in vita nella loro carica dirompente. Possiamo affermare che la controrivoluzione, cioè la forza della reazione borghese che ha arginato la spinta rivoluzionaria del proletariato, ha sospinto tali contraddizioni ad un livello ancora più acuto, poiché ha reso macroscopico il solco di disparità tra gli stati capitalistici più avanzati e il resto del mondo; ha elevato all'ennesima potenza il carattere usuraio del capitale finanziario; ha accentuato la crisi socioeconomica nei paesi di vecchia industrializzazione con l'aumento della disoccupazione, del depauperamento del proletariato, del tracollo inesorabile del sistema di tutela sociale; ha trasformato i paesi che hanno abbandonato il socialismo per restaurare il capitalismo, in terra di razzie per bande di affaristi, avventurieri e malavitosi; ha aperto altri conflitti armati in diverse aree del mondo. Nel volgere di un tempo relativamente breve il capitalismo ha trasformato l'intero pianeta in un enorme mercato per il reperimento delle materie prime e per lo sbocco dei prodotti finiti, in una corsa esasperata verso il massimo profitto, lasciando dietro di sé una tremenda scia di sangue. E ciò all'unico scopo di asservire, sottomettere, schiavizzare popoli e nazioni. Il leitmotiv del capitalismo contemporaneo rimane sostanzialmente identico, non dissimula la legge del profitto che spinge il capitalista ad estorcere il massimo valore aggiunto al lavoro dell'operaio, ad escogitare sempre nuove soluzioni per contrastare la caduta tendenziale del saggio di profitto, a considerare l'essere umano un accessorio del ciclo di produzione, alla stessa stregua della macchina alla quale lo incatenerebbe per un arco di tempo indeterminato se limiti fisiologici e anagrafici non lo impedissero. Capitalisti e proletari sono perciò su piani di confronto inconciliabili, e la lotta di classe, quale che sia la forma e l'intensità che può assumere in un dato momento storico, non può essere soppressa nel capitalismo poiché coincide col carattere antinomico di questo modo di produzione. L'epoca dell'imperialismo, a dispetto della fraseologia altisonante diffusa dagli ideologi della borghesia sul valore universale della democrazia politica, lega indissolubilmente la pratica rivoluzionaria della classe operaia alla politica reazionaria delle classi dominanti. Nessun elemento di novità, anche e soprattutto alla luce dei fatti che in questi ultimi anni hanno stravolto i rapporti di forza tra capitale e lavoro, può negare questo rapporto antitetico, che al contrario trova conferma nella logica binaria rivoluzione/controrivoluzione proprio nel dispiegamento palese della reazione nei paesi che avevano scalzato la borghesia come classe dominante. Il termine globalizzazione oggi è comunemente accettato come sinonimo di interconnessione stretta tra le economie di tutti i paesi. Marx ed Engels, già nel Manifesto del 1848, avevano colto la proporzione globale dello sviluppo capitalistico. Nella fase attuale la dimensione planetaria di tale fenomeno segna marcatamente la posizione subordinata dei governi nazionali agli interessi dei capitali finanziari internazionali, la cui politica di ingerenza diretta si sostituisce gradualmente e palesemente agli organi del potere formale. Il capitale continua incessantemente nell'opera di demolizione di ogni confine nazionale, ridisegnando brutalmente le mappe geopolitiche del mondo, abbatte ogni barriera che possa ostacolare il suo moto tentacolare. Le nuove forme di accordi economici già realizzati, sottolineano la direzione verso la quale i gruppi monopolistici intendono procedere per ritagliarsi ulteriori spazi di azione, affrancandosi dai vincoli normativi in materia di trasferimenti finanziari e di legislazione del lavoro. La stessa Unione Europea, concepita sugli accordi economici e finanziari di Maastricht e sulla moneta unica (che si propone come antagonista al dominio mondiale del dollaro statunitense e dello yen giapponese) si configura come una struttura sovranazionale dei poteri delle lobby bancarie più influenti sotto le insegne dell'aquila imperiale della Bundesbank. Responsabili in pectore dell'UE sono oramai il presidente della banca centrale e il ministro delle finanze della Repubblica Federale di Germania. Le borse valori sono il sismografo che registra le oscillazioni dello stato dell'economia che rileva le avvisaglie di un' onda sismica che non potrà non abbattersi sui paesi capitalistici più industrializzati. Una massa abnorme di capitale monetario vaga per i mercati mondiali alla ricerca del capital gain che può solo ottenere con lo spietato attacco al lavoro. Il volume dei capitali che viaggia da un capo all'altro dei continenti, in forma di lucrosi investimenti industriali e di flussi finanziari che muovono indici borsistici che si impennano o crollano, denota inequivocabilmente quale è la strada che percorre la ricchezza prodotta dai lavoratori. Sempre più frequentemente si raccolgono le preoccupazioni degli stessi economisti della borghesia, che avanzano il timore che si possa innescare una reazione a catena incontrollata, un crac simile a quello che nel '29 avviò la fase di grande depressione del capitalismo prima della seconda guerra mondiale. Significativo del clima di incertezza è l'andamento di un indice borsistico separato, il Nasdaq, che avrebbe lo scopo precipuo di evidenziare l'evoluzione della new economy, un criterio moderno di gestire gli affari attraverso le grandi potenzialità che offrono i sistemi integrati telematici. Ma aver dotato il capitalismo di un "propulsore turbo" non è sufficiente per mascherare lo squilibrio finanziario ed evitare le manovre speculative che colpiscono le borse, anche se gli specialisti insistono sulla 'volatilità" del valore dei titoli, per giustificare la crisi del settore. Le recenti crisi finanziarie di Messico, Russia, Brasile e di altre importanti economie del sud-est asiatico hanno assunto, nel volgere di breve tempo, estensioni vastissime; hanno evidenziato la punta dell'iceberg di un fenomeno di proporzioni larghissime. Gli istituti di credito internazionali, con a capo il FMI, una emanazione diretta dei maggiori paesi industrializzati, finanziano le banche centrali costrette ad intervenire a sostegno delle divise forte mente svalutate per impedire il tracollo generalizzato delle proprie economie. Le vittime innocenti di questo ignobile traffico di capitali dei gruppi affaristici sono i popoli, i lavoratori, i proletari, che vedono drasticamente ridursi il loro tenore di vita per le manovre dei governi centrali che, per volere del FMI, adottano misure restrittive, tagliando il bilancio dello Stato, privatizzando e liberalizzando il "mercato del lavoro". Guerre civili, criminalità organizzata sempre più spietata, assalti ai negozi, grandiose manifestazioni, scioperi, rivolte, repressioni della polizia, caratterizzano tragicamente il profilo sociale di queste importanti realtà del mondo torchiate da un capitalismo senza più freni. Persino il keynesismo degli anni trenta, intervenuto come strumento di politica economica in un momento particolarmente critico per il capitalismo, rappresenta oggi per le tronfie lobby affaristiche un vecchio oggetto da rottamare. Siamo giunti all'apogeo della deregulation, del laissezfaire, all'apologia del libero mercato che fagocita gli Stati e le nazioni e che soggioga i popoli col pugno di acciaio. La crisi generale che ha investito il sistema capitalistico mondiale, per le caratteristiche nuove del contesto storico in cui procede il declino della borghesia imperialista, ha assunto connotati eccezionali. Un primo elemento di valutazione ci deriva dal periodo straordinariamente lungo in cui si trascina la crisi economica, che costringe la borghesia imperialista alla ricerca frenetica di ogni possibile tecnica per valorizzare un capitale sempre più ampio e sempre più sbilanciato nella sua componente fissa. L'ammodernamento degli impianti richiede infatti masse monetarie sempre più consistenti. La fusione tra capitale industriale e finanziario e la loro concentrazione diventano perciò un imperativo per tutte le industrie nella lotta concorrenziale per mantenere i mercati e per conquistarne altri. Il risvolto di questa dinamica rende inattuabile ogni ipotesi che voglia coniugare nell'equilibrio sociale capitale e lavoro. Il paradosso di considerare la sanità, l'assistenza, la prevenzione e la cura della salute pubblica, un'attività aziendale da cui estrarre un ricavo, può bastare per dare la misura della sete di profitto della borghesia. Lo stesso apparato industriale subisce il sacco dei monopoli, che abbandonano interi comparti produttivi nei maggiori paesi industrializzati per dirigersi verso aree a basso costo di produzione, cosicché impianti per nulla obsoleti vengono chiusi, demoliti o trasferiti. Il processo di deindustrializzazione procede parallelamente all'aumento della produttività, indice effettivo di sfruttamento del lavoro umano. La tendenza all'aumento della disoccupazione e della povertà trova riscontro nelle cifre delle singole realtà dei maggiori paesi industrializzati, con la classica forbice che allarga la differenza tra i redditi dei ceti più ricchi e i redditi del proletariato, costretto a forme di lavoro sempre più precario e malpagato. Un altro elemento che si inserisce nella crisi del capitalismo è la conformazione del quadro internazionale. L'estensione improvvisa dell'area di ingerenza dell'imperialismo, dopo la disgregazione dell'URSS, ha avviato grandi tensioni, ha innescato conflitti armati in diverse zone dell'Europa e dell'Asia (Tagikistan, Azerbaigian, Georgia, Moldavia, Cecenia, Armenia, Bosnia, Albania, Jugoslavia) e ha spinto le potenze occidentali a sbilanciarsi apertamente per pianificare e realizzare i progetti di occupazione militare diretta anche in queste aree. L'allargamento della NATO verso Est è già di per sé l'ammissione esplicita degli intenti dell'imperialismo. Lo si è visto con la barbara aggressione che hanno subito i popoli dei Balcani ad opera delle forze imperialiste della NATO. Nell'orbita di gravità dell'Alleanza atlantica sono entrati tutti i paesi di quello che fu il Patto di Varsavia, compresa la Russia, all'interno della quale, con la formula della partnership for peace, anch'essa collegata alla NATO, i militari delle potenze imperialiste si esercitano con operazioni di pronto intervento. Il dispositivo bellico del capitale si allarga dunque a macchia d'olio e mette a segno interventi armati in tutte le aree di crisi, come in Jugoslavia, dove l'Italia fornisce un appoggio logistico alle mire egemoniche di diversi paesi imperialisti, Stati Uniti in testa. Nel sistema dei rapporti internazionali gli USA rivestono ancora il ruolo di massima potenza, ma appare chiaro che nuove forze si propongono per il controllo delle risorse naturali sulle aree strategiche del mondo. Le nazioni sconfitte nell'ultimo conflitto mondiale oggi influenzano in modo determinante l'economia internazionale e risentono esse stesse della crisi generale del sistema capitalistico. La Germania, alle prese con un tasso di disoccupazione che ha un riscontro solo nel periodo postbellico, svolge in Europa il ruolo di principale potenza economica ed ha già consolidato una sua vasta zona di influenza, esige un seggio permanente al consiglio di sicurezza dell'ONU e mobilita propri contingenti armati con le cosiddette operazioni di peace keeping. Il Giap pone, scosso da una crisi finanziaria eccezionale, si pone come seconda potenza economica mondiale, e pretende di rivendicare un maggior peso politico nelle controversie internazionali. In Asia l'espansione economica della Cina (nella quale affluiscono massicci capitali occidentali, permettendo alle multinazionali di realizzare straordinari profitti per il minor costo di produzione di molti beni di consumo) accende ulteriori elementi di contrasto commerciale in un bacino in cui si confrontano altre grandi potenze economiche già affermate o emergenti. In questo mercato sempre più affollato di "venditori di merci" gli USA assumono sempre più la veste di consumatori piuttosto che di produttori (ne è prova il pesante deficit commerciale che viaggia intorno ai 350 miliardi di dollari). Rimane a questa nazione la leadership nei settori più sofisticati della scienza e della tecnologia, ma, soprattutto, detiene saldamente il ruolo di gendarme mondiale, al quale non rinuncia, pur in presenza al proprio interno di una situazione sociale gravissima, continuando ad orientare una parte consistente della spesa pubblica al mantenimento del suo potente apparato militare. In questo scenario di guerra allo stato latente (ma che già preannuncia uno scontro aperto di grandi dimensioni), il capitale, proseguendo senza sosta nella sua folle politica di sfruttamento degli uomini e delle risorse naturali, attesta che è in corso un'altra spartizione del mondo.

lunedì 26 dicembre 2011

Sostiene Franco "Bifo" Berardi

Dittatura della finanza, sfruttamento intensivo e spettro di una guerra infinita. Ma anche resistenza e rivolta - L'apocalisse non coincide con la fine del mondo, ma con la distruzione sistematica delle intelligenze, dei desideri di uomini e donne. È la negazione del futuro, cioè della possibilità di trasformare la realtà. Non è, tuttavia, un rischio da qui a venire. È già in atto. Ha fatto irruzione sulla scena mondiale con la guerra infinita di George W. Bush e da allora continua a manifestarsi con una virulenza che toglie ogni speranza. Ma proprio quando sembra che tutto è perduto, in Europa, nel mondo arabo, negli Stati Uniti hanno preso piede rivolte e tumulti che annunciano la possibilità di una insurrezione globale. È Franco Berardi Bifo che lo scrive ne La sollevazione (Manni editore, pp. 158, euro 10), volume che raccoglie testi scritti nell'arco di un decennio, anche se è inutile dirlo che gran parte sono dedicati alla crisi economica.
Una crisi, sostiene a ragione Bifo, che non è congiunturale, perché dal lontano 2001, prima timidamente, poi sempre più platealmente si è manifestata come crisi di sistema che ha, appunto le caratteristiche, di una apocalisse.
Non è la prima volta che l'autore segnalare la desertificazione e la violenza con cui tale apocalisse si manifesta. Invita tuttavia alla pazienza, al consolidamento di esperienze che consentono a mettere in forme stili di vita alternativi a quelli dominanti. Allo stesso tempo sostiene che occorre stare dentro le rivolte e le insorgenze, sapendo che possono assumere caratteristiche regressive, altrettanto violente di quella assunte dalla distruzione di relazioni sociali che il capitale finanziario sta operando. Stare dunque dentro la «sollevazione», ma con un atteggiamento pedagogico che sappia dissuadere uomini e donne a trasformare rivolte e tumulti in pogrom e in feroci pratiche sociali xenofobe e fasciste. Un invito, questo dell'autore, che ha tonalità poetiche, di, direbbe qualche lettore dell'opera di Hannah Arendt, di amore per il mondo. Non c'è infatti niente di nichilistico in questo parlare di apocalisse, bensì la convinzione che la trasformazione della crisi in guerra è una prospettiva niente affatto fantasiosa.
Ma se questa è l'intenzionalità politica di Bifo, la sua riflessione sulla genesi della crisi è un vero è proprio work in progress, che non ha paura delle smentite che la realtà può riservare. Il punto di partenza è il capitalismo contemporaneo e le sue caratteristiche. Centralità della conoscenza, del linguaggio, del sapere in quanto forze produttive. Riorganizzazione su scala planetaria della produzione di merci, che ha come la finanza come elemento di governo e di valorizzazione della produzione di segni, di codici linguistici.Per Bifo, tutto ciò ha avuto una sua esemplificazione e un suo laboratorio nel settore digitale, che è andato in crisi nel 2001, con il fallimento di molte imprese dot-com. Gli elementi che l'hanno determinata sta in quel surplus di produzione «semiotica» che ha incontrato un limite nella morfologia del cervello umano. In altri termini, deficit di attenzione, stress, l'incapacità di sincronizzare i tempi della macchina digitale con quelli del cervello umano hanno determinato la caduta verticale del consumo di informazione e di dati da parte di uomini e donne, mentre i produttori hanno conosciuto l'aumento dei ritmi di lavoro.
Da allora il capitalismo ha cercato con tutti i mezzi - dalla guerra alla limitazione della libertà di espressione, alla limitazione della mobilità - di riprendere il controllo su un meccanismo «impazzito». E allo stesso tempo, quasi in una spirale distruttiva, il dispositivo messo in opera per la produzione digitale veniva applicato a tutti i settori economici. Da qui le resistenze, le rivolte che hanno costellato questi ultimi dieci anni. Che come tutte le rivolte non sono riuscite, sostiene l'autore, a fermare la spirale distruttiva. Ed è su questo aspetto che molti dei testi si concentrano.
L'autore sottolinea così i limiti delle rivolte, ma anche le potenzialità inespresse, invitando a riprendere un bandolo della matassa che si credeva perduto, ogni volta che la rivolta o il tumulto svaniva tanto repentinamente quanto inatteso si era manifestato. Perché, come scrive Bifo, per fermare l'apocalisse non c'è altra strada che continuare a insorgere.

venerdì 17 giugno 2011

La guerra popolare nel "libretto rosso"

L'ascesa della Cina come superpotenza mondiale è sotto gli occhi di tutti, con le peculiarità e le contraddizioni che comporta l'innesto di un modo di produzione capitalistico su un regime sociale postcomunista.
Alla radice del comunismo cinese c'è Mao Tse-tung, guida del Partito comunista cinese, a lungo un punto di riferimento per il pensiero marxista-leninista. Operai, contadini, soldati e intellettuali della Cina hanno fatto del suo pensiero una vera e propria bussola e tratto dalle sue opere insegnamenti teorici e pratici. Le citazioni che compongono il "Libretto rosso" consegnano nella sua integrità il pensiero maoista, uno strumento di lotta ideologica che ha infiammato gli animi di milioni di uomini.
"Quando le masse si saranno impadronite del pensiero di Mao Tse-tung", scrisse Lin Piao, "esso diventerà una inesauribile sorgente di forza, una bomba atomica spirituale di potenza senza pari".
<VIII. La guerra popolare
Poiché la guerra rivoluzionaria è la guerra delle masse popolari, è possibile condurla soltanto se si mobilitano le masse popolari, soltanto se ci si appoggia sulle masse popolari.
"Maggior sollecitudine per la vita del popolo, maggior attenzione ai metodi di lavoro" (27 gennaio 1934), Opere scelte dl Mao Tse-tung, vol. I.
Che cosa costituisce una vera muraglia insuperabile? Il popolo, le immense masse di popolo che sostengono con tutto il cuore e tutti i pensieri la rivoluzione. E' questa una vera muraglia insuperabile, che non cadrà mai, che nessuna forza potrà abbattere. La controrivoluzione non ci abbatterà, saremo noi ad abbatterla. Dopo aver raggruppato le masse popolari attorno al governo rivoluzionario e dato nuovo impulso alla nostra guerra rivoluzionaria, noi sapremo distruggere completamente la controrivoluzione, sapremo liberare tutta la Cina.
"Maggior sollecitudine per la vita del popolo, maggior attenzione ai metodi di lavoro" (27 gennaio 1934), Opere scelte di Mao Tse-tung, vol. I.
Le grandi forze della guerra hanno le loro sorgenti profonde nelle masse popolari. E' soprattutto perché le masse del popolo cinese sono disorganizzate che il Giappone si è sentito incoraggiato ad aggredirci. Basta che noi rimediamo a. questa insufficienza, e l'invasore giapponese, di fronte alle centinaia di milioni di uomini del popolo cinese sollevati, si troverà come il bufalo selvaggio di fronte a una barriera di fuoco: ci basterà emettere un grido nella sua direzione perché esso, per il terrore, si getti nel fuoco e sia bruciato vivo.
"Sulla guerra di lunga durata" (maggio 1938), Opere scelte di Mao Tse-tung, vol. II.
Gli imperialisti commettono tali vessazioni contro di noi che occorre prendere serie misure nei loro confronti. Non soltanto ci occorre un potente esercito regolare, ma è anche necessario allestire divisioni della milizia popolare. Così', se volesse invadere il nostro paese, l'imperialismo si vedrà privato di ogni libertà d'azione.
Intervista con un giornalista della Agenzia Hsinhua (29 settembre 1955).
Dal punto di vista della guerra popolare considerata nel suo insieme, la guerra popolare di partigiani e le operazioni dell'Esercito rosso quali forze principali si completano a vicenda come le due mani dell'uomo. Avere soltanto le forze principali costituite dall'Esercito rosso, senza la guerra popolare dei partigiani, sarebbe come combattere con una mano sola. In termini concreti, e in particolare dal punto di vista delle operazioni militari, quando parliamo della popolazione delle basi d'appoggio come di uno degli elementi della guerra, parliamo del popolo in armi. E' questa la ragione principale del fatto che l'avversario considera pericoloso avventurarsi tra le nostre basi d'appoggio.
"Problemi strategici della guerra rivoluzionaria in Cina" (dicembre 1936), Opere scelte di Mao Tse-tung, vol. I.
Indubbiamente l'esito della guerra è determinato soprattutto dalle condizioni militari, politiche, economiche e naturali nelle quali si trovano le parti belligeranti. Ma ciò non è tutto. L'esito della guerra è determinato anche dalla capacità soggettiva dei comandanti. Il capo militare non può cercare di conseguire la vittoria uscendo dai limiti posti dalle condizioni materiali, ma la può e la deve conquistare entro questi limiti. Sebbene il campo di attività del capo militare sia limitato da condizioni materiali oggettive, in questo campo egli può impostare azioni vive, brillanti, di un'epica grandezza.
"Problemi strategici della guerra rivoluzionaria in Cina" (dicembre 1936), Opere scelte di Mao Tse-tung, vol. I.
La guerra non ha altro scopo se non quello di "conservare le proprie forze e distruggere quelle del nemico" (distruggere le forze del nemico significa disarmarle, "privarle di ogni capacità di resistenza," e non distruggerle tutte fisicamente). Nell'antichità, per fare la guerra ci si serviva di lance e di scudi: la lancia serviva ad attaccare e a distruggere il nemico, lo scudo a difendere e a conservare se stessi. Fino ai giorni nostri, dallo sviluppo di questi due tipi di armi derivano tutti gli altri sviluppi. I bombardieri, le mitragliatrici, l'artiglieria a lunga gittata, i gas sono sviluppi della lancia, mentre le trincee, i caschi d'acciaio, le fortificazioni di cemento armato, le maschere antigas, sviluppi dello scudo. I carri d'assalto costituiscono un'arma nuova, in cui si combinano la lancia e lo scudo. L'attacco è il mezzo principale per distruggere le forze del nemico, ma non è possibile prescindere dalla difesa. L'attacco mira a distruggere direttamente le forze del nemico, e nello stesso tempo a conservare le proprie forze, poiché se non si distrugge il nemico, sarà il nemico a distruggere voi. La difesa serve direttamente alla conservazione delle forze, ma è nello stesso tempo un mezzo ausiliario d'attacco o un mezzo atto a preparare il passaggio all'attacco. La ritirata è in rapporto con la difesa, ne costituisce una continuazione, mentre l'inseguimento costituisce una continuazione dell'attacco. Va notato che tra gli scopi della guerra, la distruzione delle forze del nemico è lo scopo principale, e la conservazione delle proprie forze lo scopo secondario, poiché non è possibile garantire efficacemente la conservazione delle proprie forze se non distruggendo in massa le forze del nemico. Da ciò consegue che l'attacco, in questo mezzo fondamentale per distruggere le forze del nemico, svolge il ruolo principale e che la difesa, in quanto mezzo ausiliario per distruggere le forze del nemico e in quanto è uno tra i mezzi per conservare le proprie forze, svolge un ruolo secondario. Sebbene in pratica si ricorra in numerose situazioni soprattutto alla difesa e, in altre, soprattutto all'attacco, quest'ultimo resta tuttavia il mezzo principale; ciò se si considera lo sviluppo della guerra nel suo insieme.
"Sulla guerra di lunga durata" (maggio 1938), Opere scelte di Mao Tse-tung. vol. II.
Tutti i principi direttivi delle operazioni militari derivano senza eccezione da un principio fondamentale, quello di cercare fin dove è possibile di conservare le proprie forze e di distruggere quelle del nemico... Posto ciò, come possiamo giustificare l'esaltazione che facciamo del sacrificio degli eroi? Ogni guerra esige il suo prezzo, talvolta un prezzo altissimo. Ma ciò non è in contraddizione con il principio di conservare le proprie forze? In realtà non c'è affatto contraddizione, o per essere più precisi, c'è unità degli opposti. Perché tale sacrificio è indispensabile non solo per distruggere il nemico ma anche per conservare le proprie forze - la "non conservazione" (sacrificarsi e pagare il prezzo) è necessaria in senso parziale e temporaneo per conservare le proprie forze in senso assoluto e permanente. Da questo principio fondamentale consegue una serie di principi che governano tutte le operazioni militari; dai principi del comportamento in battaglia (copertura e sfruttamento della potenza di fuoco, la prima per conservare le proprie forze e il secondo per distruggere il nemico), ai principi strategici, che sono tutti improntati a questo principio fondamentale. Tutti i principi riguardanti l'addestramento militare, la tattica, le campagne militari e la strategia forniscono le condizioni per l'applicazione di questo principio fondamentale. Il principio di conservare le proprie forze e di distruggere quelle del nemico è alla base di tutta l'arte militare.
"Problemi strategici della guerra partigiana antigiapponese" (maggio 1938), Opere scelte di Mao Tse-tung, vol. II.
Ecco i nostri principi militari:
1. Attaccare dapprima le forze nemiche disperse e isolate, e successivamente le forze nemiche concentrate e potenti.
2. Impadronirsi dapprima delle Città piccole e medie e delle vaste regioni rurali, e successivamente delle grandi città.
3. Fissare come obiettivo principale l'annientamento delle forze vive del nemico, e non la difesa o la conquista di una città o di un territorio. La possibilità di conservare o di conquistare una città o un territorio risulta dall'annientamento delle forze vive del nemico, e spesso una città o un territorio non possono venir conservati o conquistati definitivamente se non dopo che sono passati numerose volte da una mano nell'altra.
4. Per ogni battaglia, concentrare forze di una superiorità assoluta (due, tre, quattro e talora persino cinque o sei volte quelle del nemico), accerchiare completamente le forze nemiche, sforzandosi di annientarle totalmente, senza dar loro la possibilità di sfuggire dalla rete. In certi casi particolari, infliggere al nemico colpi micidiali, vale a dire: concentrare tutte le nostre forze per un attacco frontale e per un attacco su uno dei fianchi del nemico o sui due, annientare una parte delle sue truppe e mettere in rotta il resto, allo scopo di permettere al nostro esercito di spostare rapidamente le sue forze per schiacciare altre truppe nemiche. Sforzarsi di evitare le battaglie di logoramento, in cui i guadagni sono inferiori alle perdite oppure le coprono appena. Cosi, benché nell'insieme siamo (numericamente parlando) in stato d'inferiorità, godiamo di una superiorità assoluta in ogni determinato settore, in ogni battaglia, il che ci garantisce la vittoria sul piano delle operazioni. Con l'andar del tempo, noi otterremo la superiorità d'insieme e alla fine annienteremo tutte le forze nemiche.
5. Non ingaggiare battaglia senza preparazione, né ingaggiare una battaglia di cui l'esito vittorioso non sia sicuro. Compiere i massimi sforzi per prepararsi bene ad ogni scontro e per garantirsi la vittoria in un dato rapporto di condizioni stabilito tra il nemico e noi.
6. Applicare pienamente il nostro stile di combattimento bravura, spirito di sacrificio, sprezzo della stanchezza e tenacia nei combattimenti continui (scontri successivi scatenati in un breve lasso di tempo e senza riposo alcuno).
7. Sforzarsi di annientare il nemico ricorrendo alla guerra di movimento. Nello stesso tempo, attribuire la dovuta importanza alla tattica d'attacco delle posizioni, allo scopo di impadronirsi dei punti fortificati e delle città del nemico.
8. Per quanto riguarda l'attacco alle città, impadronirsi risolutamente di tutti i punti fortificati e di tutte le città debolmente difese dal nemico. Impadronirsi nel momento propizio di tutti i punti fortificati e di tutte le città che il nemico difende moderatamente, a condizione che le circostanze lo permettano. Quanto ai punti fortificati e alle città che il nemico difende potentemente, aspettare che le condizioni siano mature, e poi impadronirsene.
9. Integrare le nostre forze con l'aiuto di tutte le armi e della massima parte degli effettivi sottratti al nemico. Le fonti principali di uomini e di materiale per il nostro esercito sono al fronte.
10. Saper mettere a profitto l'intervallo tra due campagne per riposare, per istruire e per consolidare le nostre truppe. I periodi di riposo, d'istruzione e di consolidamento non devono essere, in generale, molto lunghi, e, nella misura del possibile, non si deve lasciare al nemico il tempo necessario per riprendere fiato.
Questi sono i metodi principali applicati dall'Esercito popolare di liberazione per battere Ciang Kaishek. Essi sono stati elaborati dall'Esercito popolare di liberazione nel corso di lunghi annidi combattimenti contro i nemici interni ed esterni, e si addicono perfettamente alle nostre attuali condizioni... La nostra strategia e la nostra tattica si fondano sulla guerra popolare; nessun esercito che si opponga al popolo può utilizzare la nostra strategia e la nostra tattica.
"La situazione attuale e i nostri compiti" (25 dicembre 1947), Opere scelte di Mao Tse-tung, vl. IV.
Senza preparazione, la superiorità delle forze non è una effettiva superiorità, né è possibile avere l'iniziativa. Se si comprende questa verità, determinate truppe, inferiori di forze ma preparate, possono spesso, con un attacco a sorpresa, battere un nemico superiore.
"Sulla guerra di lunga durata" (maggio 1938), Opere scelte di Mao Tse-tung, vol. II.>



giovedì 19 maggio 2011

SCEPSI European School of Social Imagination San Marino

San Marino - the first conference of SCEPSI



http://th-rough.eu/side-projects/san-marino-first-conference-scepsi


Reinventing the autonomy of knowledge is the task of our time. It’s not only a political task. The epistemic foundation of research and learning as autonomous activities is at stake, when dogmas of profit, growth, competition take the lead in the old institutions of production and transmission of knowledge. This is why we are calling students and researchers, artists and scientists and social activists to gather in the first conference of SCEPSI that will take place in San Marino, on May 20 and 21, 2011. Protests against the financial aggression and the destruction of the public school in the European continent are spreading, but we have to create new institutions, aimed to self organization of cognitive workers and to the reactivation of social sensibility and imagination. The conference will be the first act of the activity of the European School of Social Imagination, that in the next year will organize seminars in San Marino, and in European cities like Helsinki, London, and Oslo. The activity of the School starts from four questions that will be discussed during the conference. These questions will be foundational for the emergent curriculum of the first year of seminars and engagements of the European School for Social Imagination. The following is the program of the conference, that may change slightly during the next weeks.

venerdì 29 aprile 2011

WikiRebel: Sostiene Franco Piperno

Rivoluzione, dalle radici della parola, ai significati nella modernità e nella contemporaneità - Rivoluzione: biografia di una parola

I). Premessa.

I disordini,i tumulti, le sommosse, le rivolte, gli episodi insurrezionali e perfino i momenti di guerra civile che si vanno svolgendo sotto i nostri occhi, dal Marocco allo Yemen, non convergono tra di loro, non sono ancora tali da far precipitare il mondo arabo nella rivoluzione. E certo, per tentare di comprendere, al di là della cronaca che stende un velo di banalità su tutte le cose, la via maestra consiste nell’analizzare criticamente quel che accade, disponendo, beninteso, delle informazioni di prima mano e, ancor di più, di una costellazione di strumenti concettuali, storici, etico-politici e economico-sociali, adeguati alla complessità della civiltà islamica.

A noi che non disponiamo, qui, di una simile strumentazione, questa strada, che è quella più breve, ci è preclusa. Ci siamo quindi risolti a percorrere un altro sentiero, nettamente più lungo e accidentato, una sorta di tratturo tortuoso che inizia da lontano e non garantisce che il cammino pervenga a buon fine. In altri termini, posti davanti alla potenziale rivoluzione araba, per nostra pochezza, piuttosto che esaminare la cosa, scruteremo la parola che la indica, accogliendo così un suggerimento prezioso di Walter Benjamin. Nel seguito, quindi, procederemo, prima, ad una ricostruzione qualche po’ accurata della etimologia ovvero della storia della parola “rivoluzione”; e solo successivamente , accresciuti dal racconto, torneremo sugli avvenimenti attuali, ancora in corso di farsi, per tentare di intravederne le linee di sviluppo.

II). Alla radice della parola.

Rivoluzione è una termine che viene dalla parola latina “revolutio” e indica il ritorno di un corpo celeste al punto di partenza, dal verbo d’azione “ revolvere”, girarsi indietro per compiere il proprio cammino, e.g. revolutio Solis. Si tratta quindi di un termine astronomico, dirò così gergale; infatti, nell’Alto Medioevo viene anche usato, dall’astrologia caratteriale cristiana e islamica - dove “pianeta di rivoluzione” sta a significare la posizione oroscopale di un pianeta lungo lo Zodiaco, contrapposto a “pianeta di natalità” che indica la collocazione, ricostruita col calcolo geometrico, del pianeta nel tema natale.

E’ intellettualmente intrigante notare come la parola “revolutio” non esistesse nel latino classico, malgrado che si sapesse già di sicuro dei moti periodici dei pianeti, gli “erranti attorno alla Terra”. Il termine compare, per la prima volta, negli scritti di Agostino, nel IV secolo della nostra era, ovvero nel basso latino, quando ormai la decadenza dell’impero romano è divenuta irreversibile. E’ probabile che la coniazione di questo nuova parola astronomica sia dovuta alla necessità di tradurre dal greco in latino la teoria astrologica di Tolomeo, predominante nel Mediterraneo a partire dal III secolo, che fa uso di un lessico tecnico assai più ricco di quello presente nel latino classico — si sa che Roma è stata grande in tutto, forse; ma, in astronomia, non di certo..

Il termine ricompare poi, con maggiore frequenza, a partire dal Duecento, con la ripresa generale degli studi astronomici, innescata dal contatto tra la comunità colta italiana e l’aristotelismo arabo; lo userà il dottor angelico, Tommaso d’Aquino, come gli astrologi alla corte di Federico II, nella Palermo sveva. Attraverso l’ordine dei Domenicani, si diffonderà nel latino scolastico di tutta Europa, sempre nel significato astrologico- astronomico. Dante la impiega, in latino, nel “Convito” e in volgare nella “Commedia”; e accadrà così nel Basso Medioevo per le altre lingue neo-latine. Qui mette conto notare che, per i medievali, fossero filosofi della natura o poeti, la parola rivoluzione, pur carica di simbolismi, è del tutto priva di ogni risonanza politica sovversiva — come accade, invece, per i moderni.

Quando, nel XV e XVI secolo, in conseguenza dei grandi viaggi e della necessità di emendare il calendario giuliano, precipita la crisi dell’astronomia medievale, nel dibattito che si apre tra aristotelici e tolemaici, la rivoluzione, e la misura del suo tempo, diviene il concetto centrale della contesa. Sui movimenti rivoluzionari dei pianeti scriveranno, con minuzia attenta, il bavarese Georg Peurbach, il veronese Girolamo Fracastoro e il cosentino Gian Battista Amici, “ammazzato nel miglior corso della sua età” perché caro al Cielo.

III). La rivoluzione diventa rivoluzionaria per metonimia ..

Poi, a metà del XVI secolo, viene stampato, a Norimberga, un trattato sul sistema del mondo che ha per titolo “ De Revolutionibus Orbium Coelestiun “ . Il libro è giustamente destinato a modificare il significato, in Occidente, della parola rivoluzione; infatti, il titolo, che è del tutto tecnico e perciò anodino, passerà a significare gli effetti teologici e scientifici prodotti, nei decenni successivi, dalla diffusione dal libro stesso; effetti non voluti che, per una sorta di metonimia, saranno nominati appunto rivoluzionari, intendendo con questo termine quel profondo sommovimento culturale con il quale ha inizio la modernità, tanto intesa come formazione politico-sociale quanto come nuova mentalità, trasformazione dell’interiorità, del senso comune.

L’autore, Niklas Koppernigk, latinizzato in Copernicus, è il canonico della Cattedrale di Frauenburg, città ai confini della cristianità di rito latino, in una terra incognita già contesa tra l’ordine dei Cavalieri Teutonici e il Regno di Polonia. Da giovane, l’astronomo aveva studiato la scienza dei cieli a Padova, ai tempi in cui quell’università era il più prestigioso luogo europeo per lo studio e l’elaborazione della filosofia naturale, nella tradizione aristotelico-averroista.

Copernico ha avuto modo solo “in extremis” di leggere le bozze del suo libro, sul letto di morte. Egli, come si conviene ad un polacco, era stato in vita un buon cattolico, fedele alla Chiesa di Roma. Tutto avrebbe potuto immaginare, sfogliando il suo libro per la prima e l’ultima volta, salvo che, un giorno lontano, due secoli e mezzo dopo, il sistema del mondo da lui stesso proposto - dove Dio non compariva perché era una ipotesi della quale aveva imparato a fare a meno -- avrebbe autorizzato Massimiliano Robespierre a fare a meno della monarchia borbonica, decapitando Luigi Capeto.

Infatti, come è risaputo, le rivoluzioni alle quali si riferisce il titolo del libro non sono quelle politico-sociali, che arriveranno solo nei secoli successivi. Il “De Revolutionibus”, come era d’uso tra gli astronomi, si occupa delle rivoluzioni planetarie, dei movimenti zodiacali dei pianeti a cui si è già accennato; la sola novità è che, per Copernico, essi sono ordinati attorno al Sole e non invece attorno alla Terra, come accadeva nell’ordine antico.

Per altro, la tesi eliocentrica non risultava poi così nuova; piuttosto, dirò così, era rinnovata; come scrive lo stesso Copernico era stata avanzata per tempo dagli antichi krotoniati; e ripresa, molto tempo dopo, senza i furori orfici dei pitagorici, in modi,dirò così, più ragionevoli, dall’astronomia ellenistica d’Alessandria.

Quel che decisamente distingue il “De Revolutionibus”, dagli altri sistemi eliocentrici precedentemente proposti, è l’inaspettata potenza esplicativa delle argomentazioni. Il canonico polacco riesce, come usava dire allora, a salvare i fenomeni celesti osservati, fossero gli stazionamenti, le retrogradazioni o il rapporto tra periodi sinodici e siderali, tutti ricostruiti a partire dalle loro cause. Ma soprattutto spiega molto bene, a livello di senso comune ma senza mai rinunciare al rigore del ragionamento geometrico, perché gli esseri umani non si accorgano, attraverso i sensi, di vivere su una immane sfera che ruota rapidamente attorno al suo asse e gira vorticosamente attorno al Sole.

Di per sé, il sistema del mondo esposto nel “De Revolutionibus” non avrebbe certo provocato la rivoluzione copernicana se fosse stato presentato come un modello matematico, utile per rendere più agevole il computo delle tavole astronomiche, ma senza alcuna pretesa fisica, di corrispondenza con la realtà dei cieli. Era questa del resto la dimensione dentro cui s’era accucciata con soddisfazione, per secoli, l’astronomia tolemaica, che non aveva avuto mai guai seri con le gerarchie ecclesiastiche.

Ma in Copernico, soprattutto nei suoi seguaci, v’era qualcosa di più: l’assunzione ontologica del sistema eliocentrico, il suo proporsi non come rappresentazione matematica bensì come descrizione fedele del mondo. Fu questa assunzione a provocare lo scontro con le variegate chiese cristiane, fossero cattoliche, anglicane, luterane o ortodosse. In verità, neanche questa epistemologia, dirò così, realista spiega fino in fondo, l’asprezza e la faziosità dello scontro ideologico, senza paragone, né in precedenza né per il seguito, nella storia della cultura scientifica occidentale. Per capire la veemenza di questa lotta d’idee, che a ben vedere è solo una diatriba tra dotti, bisogna tener conto del contesto, della contingenza: pressoché in contemporanea con l’avvento della astronomia copernicana, si era accesa, in Europa, la guerra di religione, tra le chiese riformate e quella cattolica, per l’egemonia nella cristianità.

Vediamo le cose più da vicino. Cattolici e protestanti si affrontano sanguinosamente ma hanno in comune la fede nello stesso criterio di verità : la parola rivelata, le sacre scritture. Non solo l’autorità delle chiese ma anche la legittimità del potere dei sovrani cristiani si fonda sulla verità della Bibbia.

La “nova astronomia”, quella eliocentrica, è del tutto estranea o meglio indifferente alla parola di Dio. Infatti, essa sarà considerata eretica da cattolici e riformati, che faranno a gara tra di loro per mandare al rogo i libri che la espongono, quando non i loro autori. I copernicani, per altro non sempre consapevolmente, propongono un altro criterio di verità, fondato sulla corrispondenza tra fenomeni e parole della lingua geometrica; criterio autonomo, quindi, anche se non necessariamente ostile a quello cristiano, dove la relazione corre tra fenomeni e parole della lingua di Dio. Si delinea così quel regime di doppia verità, quella religiosa e quella scientifica, destinato a perdurare fino ai giorni nostri.

Tuttavia questo registro di tolleranza epistemologica ha difficoltà ad imporsi all’ inizio perché la contingenza esaspera lo scontro, favorendo le posizioni estreme. Da una parte le chiese in guerra tra di loro, si rifanno entrambe alla Sacra Scrittura come fonte di legittimità; e per evitare di impantanarsi dentro un labirinto senza uscita di interpretazioni della parola biblica, si risolvono ad imporre una accettazione letterale, inevitabilmente rozza, delle affermazioni, qualche po’ fantasiose e poetiche, contenute nella Bibbia.

D’altro canto, i copernicani, per sopravvivere intellettualmente, esasperano il realismo fisico, anche questo un po’ ingenuo ma pur sempre il vero punto di forza, delle loro teorie astronomiche. Sicché, laddove la parola di Dio collide apertamente con quella della geometria, lo scontro è senza quartiere. Valga un esempio: nei Salmi di David si riportano degli interventi divini per accelerare il sorgere del Sole o rallentarne il tramonto; in un altro famoso passo biblico, un profeta, tra i più autorevoli, invoca la benevolenza di Dio per fermare il Sole. Dunque, secondo l’Antico Testamento, il Sole si muove – per inciso, non era necessario scomodare la parola di Dio per stabilire il movimento, infatti basta guardare la volta celeste per assicurarsi che il Sole si muove, oggi come ai tempi di David e a dispetto di quel che insegnano le nostre scuole.

Le chiese, tuttavia, non ricorreranno al conforto della esperienza comune, giacché Copernico aveva illustrato in modo esaustivo come questa potesse trarre in inganno; piuttosto, nel clima allucinato di quel ritorno, per lacrime e sangue, alla Bibbia, l’argomento sarà quello ultimo,che non ammette repliche: il ricorso alla verità di Dio trasmessa dai profeti. Così, agli occhi dei fedeli, il sistema eliocentrico che era anche elio statico, appare non solo eretico ma blasfemo, osando la parola di Copernico confrontarsi con quella di Dio.

Detto altrimenti, ciò che le chiese temevano, ed è poi accaduto, era che la messa in dubbio, anche una sola volta su un solo punto, fosse pure di filosofia naturale, dell’autorità delle Scritture avrebbe comportato una grave lacerazione della comune concezione etico-politica ben al di là del cerchio ristretto dei filosofi e dei teologi. Abbiamo già notato che, in quei tempi, la legittimazione e l’interiorizzazione del dominio, del trono come dell’altare, riposassero, in ultima analisi, sulla rivelazione biblica.

IV). La rivoluzione scientifica.

I copernicani, a loro volta, non volendo rinunciare al loro sistema del mondo si videro costretti ad approfondire l’assunzione ontologica, gli aspetti propriamente fisici della teoria -- ovvero la sua corrispondenza con la realtà dei cieli. Ora, l’astronomia “nova” richiedeva una nuova fisica, dal momento che quella tradizionale, in particolare quella aristotelica della gravitazione, postulava un geocentrismo statico incompatibile con il sistema eliocentrico. In altri termini, si apre, con Copernico uno sforzo di pensiero dentro cui si situerà Galileo, l’italiano geniale che inventerà il metodo sperimentale, l’uso degli strumenti di misura, in primis il cannocchiale, per verificare o falsificare le teorie; poi Keplero, il tedesco dalla interiorità abissale, che comporrà le leggi della nuova astronomia quasi fossero spartiti musicali; infine per ultimo ma non ultimo l’inglese Newton che, con saggezza qualche po’ saturnina, darà i principi matematici della nuova fisica.

Ecco, nasce così la tecno-scienza, satura di numeri e di misure, che modificherà profondamente, con le sue innovazioni strumentali, il rapporto tra l’uomo occidentale e la natura, trasformando, via via, la vita quotidiana in un modo che mai s’ era dato prima nella storia dell’Europa.

Noi, oggi, riguardando all’indietro quel periodo, lo chiamiamo “rivoluzione scientifica” e lo facciamo partire giustamente dal “De Revolutionibus” di Copernico. Dopo, noi sappiamo, sono sopravenute la rivoluzione industriale e quella politica; e questo ci fa comprendere quale potenza semantica si nascondesse fin dall’inizio nell’astronomia copernicana. Possiamo dire che, per l’essenziale,la modernità nasce dalle rivoluzioni celesti del canonico polacco così come diciamo che il cristianesimo prende le sue origini dalle parole divine riportate nei Vangeli— come si vede, in Occidente, la verità usa venire dal Cielo.

Mette conto ripetere qui che lo scontro, tra cosmologi e teologi del XVI secolo, coinvolge una piccola frazione della comunità colta europea; la quale a sua volta è, nel suo insieme, una trascurabile minoranza della popolazione. Per paradossale che possa sembrare, questa diatriba, vivace certo ma in fondo specializzata e zeppa d’argomenti bizantini, ha innescato, in un giro di tempo relativamente breve, con un processo a valanga, quei radicali mutamenti cognitivi, politici e sociali che hanno costituito, nel loro convergere, la mentalità moderna, quella attraverso la quale ancora oggi interroghiamo la natura ed interpretiamo il mondo; quella stessa, però, che ci nasconde alcune delle altre dimensioni della natura e potenzialità del mondo.

V). La definizione di rivoluzione: differenza e ripetizione.

Cerchiamo, ora, di sintetizzare le caratteristiche che definiscono il significato della moderna parola”rivoluzione”, quali emergono dalla sua origine, dalla rivoluzione copernicana appunto.

Per prima cosa, v’è l’accumularsi del sapere sociale che deborda dai vecchi paradigmi cognitivi – l’espansione delle città, lo sviluppo dei commerci, i viaggi transoceanici, il computo del calendario, l’attività artigianale degli orologiai interrogano e mettono in crisi la concezione tolemaica del tempo astronomico. Viene poi l’elaborazione di nuovi paradigmi scientifici in grado di ricondurre ad unità gli interrogativi dando loro una risposta socialmente adeguata perché tecnicamente perfetta – il successo nella matematizzazione dell’astronomia e dei saperi artigiani. Ancora, l’affermarsi dell’autonomia della conoscenza rispetto ai saperi sacerdotali — la rivoluzione copernicana produce esodo semantico, si colloca oltre la guerra religiosa tra Riforma e Contro Riforma; ha la sua origine in Polonia e Italia piuttosto che in Germania e Spagna.

Bisogno collettivo di conoscenza, capacità di rispondere creativamente a questo bisogno richiamando la memoria condivisa, mobilitazione delle moltitudini sul terreno della violenza di massa, sono questi, ci sembra, gli ingredienti della rivoluzione nel senso moderno della parola. Questi certo; ma con in più, decisiva ed imponderabile, la mano invisibile del caso che tutto rimescola.

La rivoluzione è una idea nonché una prassi collettiva autenticamente moderna – nel mondo antico è impraticabile perché è senza none. Ma questa differenza vela la ripetizione— è evidente che esistono similitudini ed analogie tra la rivoluzione moderna e i tumulti, le sommosse, le rivolte, le insurrezioni, le guerre civili; e, soprattutto, i movimenti religiosi che scandiscono il tempo antico e medievale. Ma per quanto appropriate possano essere queste similitudini, per quanto efficaci le analogie, resta irriducibile la differenza.

Intanto, come si è visto, la rivoluzione è una metonimia dove il titolo dell’opera sta per gli effetti dell’opera stessa; insomma, si può davvero riconoscerla solo quando è ormai terminata. E poi, essa, certo, comporta, rivolte, sommosse, insurrezioni e perfino guerre; ma, dirò così, pur attraversandole tutte le trascende. Semmai, per i sommovimenti interiori che produce, ha una parentela celata, con i movimenti religiosi; ma anche qui persiste caparbia la differenza, perché le nuove religioni richiedano l’apparizione di un Dio, come per i cristiani, o almeno, più modestamente ,di un suo profeta, come per gli islamici—e questi sono, dobbiamo riconoscerlo, eventi piuttosto rari, e.g. sono quasi millecinquecento anni che in Europa non appare nessun Dio e neanche un suo profeta.

La rivoluzione moderna non ha l’autorizzazione divina; è una opera fragile, creaturale , consapevolmente affidata alle capacità di cooperazione intelligente tra le donne e gli uomini; una opera buona fatta da gente comune, sempre esposta agli errori, difettosa come un bimba malnata; eppure saggia, in senso moderno, perché capace d’apprendere dai propri errori. Insomma proprio perché la rivoluzione può fare a meno di Dio, dei suoi profeti e perfino degli eroi essa può rifiutarsi di vivere nell’attesa, può strappare la gioia al futuro e dilatare il presente fino a comprendere passato e futuro come qualità del presente, secondo il detto biblico: prima che Abramo fosse, io sono.

VI). La rivoluzione sprofonda e poi riemerge.

Poi, per oltre due secoli, la parola “rivoluzione” andrà perduta, scomparirà dalla lingua scritta; salvo che, beninteso, dai libri di filosofia naturale, dove precipiterà allo stato semantico iniziale, come termine tecnico dell’astronomia.

Riaffiorerà in Francia nell’89 parigino; e là mostrerà la sua fertilità lessicale partorendo subito un sostantivo “revolutionaire”, un verbo d’azione “revolutioner”, e poi di seguitp “contra revolution” ( Mirabeau 1790), “controrevolutioner” ( Danton 1792) e perfino “ultrarevolutioner” (1794) – quest’ultimo nella accezione italiana odierna, di “volscio”, ossia estremista invasato con l’aggravante della buona fede.

Qui si presenta una obiezione. In effetti, quello tra i nostri quattro lettori, che ha letto più di dieci libri, potrebbe rimproverarci che, nella ricostruzione della biografia della rivoluzione, abbiamo maldestramente scordato il precoce suo soggiorno nei paesi anglosassoni. Raccontano, infatti, i libri di storia che, prima di quella francese, di rivoluzioni ve ne è stata una , anzi due, in Inghilterra, nel 1640 e nel 1688 ; ed ancora una altra, un secolo dopo circa, nell’America del Nord. Ma noi, qualora venisse avanzata questa obiezione dal nostro lettore colto, la rigetteremmo, con fermezza e cortesia, come non pertinente. Vediamo perché. Intanto, la parola inglese “revolution”, nel senso politico-sociale, è un calco della corrispondente parola francese “revolution”; questo vuol dire che i protagonisti delle cosi dette rivoluzioni anglosassoni non si consideravano certo rivoluzionari, mancando loro la giusta parola -- essa, infatti, sarà coniata in Francia, nel secolo successivo , come abbiamo già notato.

Infatti, solo a partire dalla metà del XIX secolo la storiografia liberale britannica adopererà la parola per caratterizzare dapprima esclusivamente gli avvenimenti inglesi del 1688, ovvero la deposizione di Giacomo II e l’ascesa al trono, imposta dal Parlamento, di Guglielmo III d’Orange; anzi a questo episodio esangue verrà dato addirittura il nome di “Rivoluzione Gloriosa”, dove l’aggettivazione pomposa intende esaltare l’assenza di violenza di massa, in contrapposizione polemica con i moti rivoluzionari di Francia.

Successivamente, ormai nel XX secolo, per merito della storiografia socialistica britannica, anche per gli eventi inglesi del periodo 1640-60 – lo scontro sanguinoso tra i soldati del Re e quelli del Parlamento e,a seguire, la lunga dittatura di Cromwell - verrà certificata la natura rivoluzionaria, dirò così, amplificando a dismisura il ruolo, del tutto testimoniale, di “livellatori” e “zappatori”. Dal nostro punto di vista, quella del 1688 fu’ una modesta cospirazione dinastica, del tipo, ha scritto Raymond Aron, “ togliti di là che mi ci metto io”; la discontinuità dinastica, infatti, ebbe conseguenze rilevanti nella formazione del sistema rappresentativo inglese, ma risultò del tutto ininfluente sulla mentalità delle moltitudini e la distribuzione della ricchezza sociale.

Quanto al ventennio repubblicano 1640-60, che pure ha visto la decapitazione del Re, è per noi assimilabile, piuttosto che ad una rivoluzione, ad una guerra di religione scoppiata tra anglicani e presbiteriani; la presenza, in quel periodo, di tentazioni democratico-- egualitari e perfino comunistiche, se attesta la complessità politica del movimento presbiteriano, non ha una massa critica tale da comportare una qualche rottura culturale o socio-economica significativa.

Infine, la così detta rivoluzione americana costituisce, in verità, l’archetipo della moderna guerra d’indipendenza nazionale - fatto puramente politico che non comporta alcun mutamento sociale o anche solo culturale.

Torniamo dunque alla vera e grande rivoluzione, quella francese. Qui compare, per la prima volta dai tempi del “De Revolutionibus”, una sorta di autocoscienza soggettiva della prassi rivoluzionaria; intendiamo dire, che la parola “rivoluzione” –nel significato di radicale e rapido mutamento dell’ordine costituito – non viene usata per valutare” ex-post” un processo storico ormai compiuto, come era accaduto con il copernicanesimo; al contrario, nella Parigi dei primi anni novanta del XVIII secolo, la rivoluzione sta a significare la volontà “ ex-ante” di compierla, è divenuta progetto di mutamento, radicale e rapido, consapevole di sé. Nelle parole dei protagonisti possiamo cogliere la pienezza semantica conseguita dall’idea di rivoluzione: essa è una violenta restaurazione della giustizia e della libertà che già vigevano in un tempo passato, ancorché imprecisato, e.g. “ Definisco la rivoluzione come il ritorno della Legge, la restaurazione del Diritto, la reazione della Giustizia” ( Marat, 1790); e ancora “ La Rivoluzione è la guerra cruenta della libertà contro i suoi nemici” (Robespierre,1791).

Questa raggiunta pienezza semantica—restaurazione violenta di un ordine giusto già dispiegato almeno una volta nella storia—assicura una tale intensità al processo rivoluzionario da contrarre vertiginosamente il suo tempo di vita; sicché, nel volgere di un decennio, compie l’intero ciclo: dalla fase iniziale politicamente liberale, attraverso una brusca radicalizzazione democratico-giacobina che comporta il Terrore, si giunge col Direttorio ad una stabilizzazione moderata, per poi cadere all’indietro nella dittatura militare di Napoleone e quindi precipitare senza scampo nella controrivoluzione.

La modulazione del processo rivoluzionario, una sorta d’imprinting iniziale, si ritroverà intatto nelle altre rivoluzioni che seguiranno quella francese lungo gli anni che verranno da allora ad oggi; fino al punto che, se noi osserviamo, con l’occhio della mente, il corso della storia occidentale nel medio-lungo periodo, possiamo usare la presenza di quelle fasi, in un ciclo trasformativo, come regola storiografica per distinguere la rivoluzione dalle ribellioni e dalle rivolte.

Soccorrono qui, ad ammonirci sulla enigmatica sensatezza del tutto, i versi cupi, ma disperatamente lucidi, di Paul Valery che suonano, nel ricordo, grosso modo così : la rivoluzione compie, l’opera di cento anni, in dieci giorni o forse più / e perde, l’opera di dieci secoli, in dieci anni o forse più.

VII). Rivoluzione e tradizione.

Le forme ammalianti della rivoluzione moderna si riconoscono agevolmente nel “48 europeo, nella Comune di Parigi del “70, nell’Ottobre Rosso del “17; infine, nel “68 europeo, quando un lungo ciclo si chiude e la rivoluzione torna in Francia; e là attende, paziente, di nuovo, la sua Comune.

Un tratto distintivo di queste rivoluzioni sta nel nesso tra mutamento e tradizione, nesso che istituiscono col gesto sovrano di riappropriarsi di una potenzialità collettivamente posseduta, la facoltà dell’agire violento.

A ben vedere, l’intreccio tra innovazione e tradizione è un tema cruciale di tutte le grandi esperienze trasformative del senso comune, della mentalità collettiva. Infatti, i tentativi rivoluzionari, nel corso dei secoli passati, fossero essi riusciti o rovinosamente falliti, hanno cercato, con caparbietà, di rievocare la memoria, secondo una attitudine a risarcire la verità che era già apparsa, almeno una volta, nel passato. Si è trattato, in ogni caso, di una restaurazione della giustizia che già vigeva all’origine, c’era già stata anche se poi s’era perduta; insomma un ritorno alla verità o meglio un nuovo suo svelamento. E’ come se la parola rivoluzione, nel significato politico-sociale che essa ha assunto nella modernità, custodisse latente nel suo seno l’etimo astronomico,” il ritorno al luogo dal quale si è partiti “.

Per esempio, le eresie nell’ Occidente medievale, le “scelte religiose”, in un modo o nell’altro, risalgono, o almeno alludono, alle comunità primigenie, al cristianesimo delle origini, quello della catacomba. Là, in un luogo notturno, dionisiaco, si svolge l’esodo dei fedeli dal futuro, dalla tirannia dell’attesa; e si vive, fin da subito, la buona novella annunciata dai Vangeli, la pienezza vitale dei corpi in comunanza sensuale -- Gesù, morto per salvare il figlio dell’uomo, è già risorto; e il figlio dell’uomo è ormai salvo.

Vi sono, ben inteso, altri esempi, dirò così, più laici, a sostegno di quel che andiamo dicendo. I movimenti repubblicani, in Occidente, hanno tratto ispirazione dalla Roma repubblicana: è accaduto per i Comuni medioevali, come per la Grande Rivoluzione francese; ma anche per la Comune di Parigi e perfino per la Rivoluzione russa.

Lo stesso Marx, del resto, sembra attribuire un significato decisivo al rapporto uterino tra trasformazione sociale e memoria collettiva; valga come esempio, quel suo concetto, elaborato con l’aiuto di Engels, di “comunismo primitivo” che suona come un ossimoro. L’ipotesi che sostiene quel concetto è che, se una forma di vita sociale c’è già stata, allora può sempre nuovamente tornare. Viceversa, tentare di fabbricare una relazione umana, nuovissima, mai vista prima, vale come ululare alla luna perché ci aiuti, fiducia superstiziosa nel futuro, insomma una illusione cognitiva. Una cosa può accadere ora se è già accaduta prima; ma se la forma di vita alla quale si tende è utopica, non ha mai avuto luogo, se, come canta il poeta, di essa “ non v’è traccia presso l’antico egizio o l’astuto caldeo, se è stata ignorata dall’audace fenicio come dal sibarita gaudente, se è sfuggita al greco smaliziato e all’orgoglioso romano, se è stata tenuta in nessun conto dal barbaro crudele ed indolente come dal raffinato bizantino, dal mussulmano invasato come dal crociato freddo e pio”; allora se è andata così, inseguire l’utopia è una evasione immaginaria dalla noia accidiosa nella quale trascorre il presente.

Marx soleva dire, non senza sarcasmo, che bisognava rifiutarsi di fabbricare pignatte per le minestre del futuro; e, viceversa, mostrava un vivo interesse per le forme di vita altra, del passato e del presente, quelle che l’antropologia culturale veniva scoprendo, nella seconda metà del XIX secolo; si pensi all’attenzione premonitrice con la quale vengono seguiti, da Marx come da Engels, gli studi di L.H.Morgan sui nativi del Nord America – questi studi costituiranno l’orizzonte dentro cui s’iscrive il libro “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”, dove appunto viene elaborata la categoria logico – storica di “comunismo primitivo”.

Sempre Marx ma ormai maturo, purgato da ogni adolescenziale futurismo, nei suoi ultimi scritti, sul modo di produzione asiatico, sostiene, senza alcun ipocrita ritegno, che certo vi sono più elementi, dirò così, di comunismo nella vita quotidiana del Mir russo – il villaggio del servaggio contadino che si autogoverna-- di quanti ne contenga il programma o la condotta della socialdemocrazia tedesca ,che pure a lui s’ispira.

Dunque, un primo tratto distintivo della rivoluzione è un suo richiamo, più o meno mitico, all’esperienze del passato; si tratta, a ben vedere,di ampliare la memoria comune , di disporre di un tempo presente più ampio— vivere, qui ed ora, la dimensione della lunga durata. La rivoluzione non è l’apparizione miracolosa dell’assolutamente nuovo, della futura umanità, come vuole il canto francese dell’homo laborans. Piuttosto, la società presente nutre nel suo seno una alternativa, una altra umanità; e non ha che da riaffiorare nella coscienza collettiva per passare dal potenziale all’attuale; e il passaggio è la rivoluzione propriamente detta. Ora perché questo passaggio abbia luogo non basta predicare la verità; occorre sporcarsi le mani, agire la violenza, quella sociale.

VIII). La violenza rivoluzionaria.

Qui siamo di fronte all’altro tratto distintivo della rivoluzione, che la rende di natura diversa tanto dai movimenti religiosi quanto dalle pratiche laiche dell’irenismo pedagogico socialdemocratico - intento a conseguire lo scopo come di soppiatto, centellinando il mutamento senza disturbare la pace sociale, magari chiedendo aiuto al progresso scientifico.

Insomma, non basta possedere la verità, occorre comunicarla, far sì che venga riconosciuta e condivisa. Ed è qui che irrompe sulla scena, legittimamente, la violenza, quella collettiva, sociale. Niente, neanche l’arte, ha la potenza comunicativa che è propria a questa forma suprema di cooperazione umana. La violenza collettiva, come il brontolio profondo del terremoto,quando s’annuncia vola poi veloce di bocca in bocca; scuotendo, dall’interiorità la più profonda, certezze ed abitudini quotidiane; e pone la comunità umana nella dura necessità di scegliere. E questo con ragione, perché si tratta di una esperienza catartica dell’individuo sociale che accomuna tanto coloro che la violenza la infliggono quanto quelli che la subiscono.

Essa non è il mezzo più affilato e rapido per vincere, come sciaguratamente ritengono i “begriffi” generosi che praticano l’omicidio politico – al contrario, su questo terreno, la storia ha mostrato che spesso è la via più sicura che mena direttamente alla sconfitta politica e l’annientamento fisico.

La violenza sociale – mettere a rischio per un sentimento ideale, spartito tra le moltitudini, il proprio e l’altrui corpo, sacrificare la carnalità empirica all’astrazione determinata – non ha uno scopo esterno al suo farsi; essa è compiuta in sé, mezzo e fine ad un tempo. I suoi protagonisti, più che cambiare il mondo mutano le loro idee sul mondo, si liberano da quei ceppi della mente, da quella ideologia servile che lascia trascorrere la vita civile nell’attesa, reificando il futuro— viceversa, l’avvenire è già qui, è solo un predicato del presente.

Si badi, qui la violenza sociale, proprio perché non è un mezzo ma un modo d’essere, non può essere valutata, nella sua efficacia, tramite le forme che assume, ribellione aggressiva o disobbedienza passiva, impropriamente detta non-violenza. Perché la violenza sociale può conseguire il massimo della sua potenza senza neppure attualizzarsi, al solo suo annunciarsi, attraverso la cattiveria sognante del gesto simbolico; così accade quando migliaia di manifestanti assediano a mani nude il corpo del tiranno nel suo stesso palazzo, soffocandolo senza neppure toccarlo, sottraendogli ossigeno con la loro sola presenza, come fanno le api con il fuco.

In ultima analisi, rievocare la potenzialità collettiva dell’agire violento non è altro che la riappropriarsi di un bene comune, una potenza conferita all’individuo sociale direttamente dalla natura, congenita all’abitare, allo spartire insieme lo stesso luogo; insomma, è una costituzione di sovranità che si legittima col suo solo manifestarsi; giacché il suo potere costituente non ha a fondamento il consenso ma la partecipazione-- l’efficacia con la quale interpreta, dirò così, la volontà generale delle moltitudini.

Per concludere su questo punto, la rivoluzione, quale emerge nella esperienza occidentale, abbisogna, in prima approssimazione, di due precondizioni decisive: risarcimento della memoria e disponibilità di massa ad usare violenza. Ma non basta la presenza di questi due fattori; occorre che la loro miscela avvenga nella giusta proporzione; e che la sorte sia benigna. Questo è, di tutta evidenza, un lavoro da orafi, attiene all’arte, ad una arte particolare: qui, l’artista è un soggetto collettivo - una arte di massa quindi, moltitudinaria, dove l’artista ignora lui stesso la forma finale che assumerà l’opera sua, posto che riesca a portarla a compimento.

IX). Sulla rivoluzione araba.

Gli eventi che si vanno svolgendo in questi mesi nel mondo arabo sono punteggiati da tumulti, rivolte, sommosse, e perfino momenti insurrezionali ed episodi di guerra civile. Ma per quanto benevola possa essere la valutazione, questi eventi non sembrano ancora convergere nella rivoluzione. Infatti c’è la violenza sociale ma manca la memoria, l’avvenimento mitico incastonato nel passato dal quale trarre fiducia e autostima di massa.

Diciamo meglio : nel mondo arabo,solo il movimento fondamentalista islamico possiede memoria, rifacendosi alla parola di Dio raccolta dal Profeta— ed in questo consiste l’egemonia sotterranea che a tutto oggi esercita. Le altre moltitudini, in particolare i giovani istruiti per il lavoro industriale in una società povera d’industrie, sono smarriti, senza memoria —non possono rivendicare per loro, senza cadere nel raccapriccio, la storia di chi li ha dominati, l’imperialismo dei diritti umani, l’Inghilterra per gli egiziani, la Francia per i maghrebini, l’Italia per i cirenaici. Sicché, allo stato attuale delle cose, la rivoluzione araba sarà fondamentalista o non sarà.

Vi sono però dei segni, appena leggibili, che sembrano andare in una direzione diversa. Per la prima volta, dai tempi della cacciata dei francesi dall’Algeria, i movimenti sociali, sulla costa settentrionale dell’Africa, non sono organizzati per tribù ma per città, anzi per luoghi. Le cronache ci parlano di Casablanca, Algeri, Tunisi,Biserta,Tripoli, Bengasi,Gerba,Tobruk fino al Cairo e oltre – sono questi i soggetti dell’agire, e non le tribù, che certo perseguono le loro strategie ma con ruolo meramente suppletivo.

In queste città, i giovani, che costituiscono la maggioranza relativa della popolazione, sono stati istruiti, a livello di massa, per ruoli lavorativi di tipo tecnico industriale; ma questi ruoli,modellati su quelli europei, in questi paesi hanno una esistenza rara e precaria. Infatti, il mondo arabo, per sua fortuna, non è ancora una società moderna. Così la produzione e lo scambio si svolgono prevalentemente in forme sociali che non sono capitalistiche; in altri termini, sono stati addestrati dei lavoratori salariati per una società dove il salario non c’è o quasi. In questa condizione di insensata astrattezza, lo smarrimento anzi lo spaesamento,la difficoltà di riconoscersi nei luoghi della quotidianità, in breve, di dare un senso comune alla vita civile; questa difficoltà è un sentimento che appartiene a tutte le moltitudini, ma in particolare ai giovani, che privi di memoria, stentano a ricondurre ad unità la loro esperienza, a progettarsi raccontandosi; insomma, non sanno chi sono o meglio sanno di non avere identità, di non essere persone, ma solo corpi senza lavoro, disoccupati addestrati ad occupazioni che sistematicamente si rivelano assenti.

E’ una sofferenza dell’anima, psichica, che deriva paradossalmente da una certa abbondanza mercantile e non già dalla mancanza del pane e dai morsi della fame—qui gli slogan sulla “rivolta del pane” attestano la carica simbolica che possiede il pane per la vita urbana e non il suo contenuto calorico; molti di quei giovani, per dirla tutta, sono, infatti, ostentatamente obesi.

In queste condizioni, può scattare un istinto animale, il bisogno lancinante di realtà, che porta a rovesciare l’astrazione indeterminata per privilegiare il luogo e la presenza; antidoti potenti al globalismo universale, che in quei paesi ha provocato lo stravolgimento dei luoghi, rendendo paradossale la vita urbana : nei negozi della città non manca niente, ma il cittadino vive nella angoscia di una indigenza immaginaria-- la gente, come scrivono con un inconsapevole paradosso i giornali, da anni non arriva alla fine del mese.

V’è quindi una memoria da rievocare, una tradizione autentica, diciamo così, averroista da contrapporre al fondamentalismo islamico come all’imperialismo dei diritti umani. Se avvenisse la congiunzione araba tra memoria e violenza allora il vento della Rivoluzione soffierebbe in Europa dal profondo Sud; e le città meridiane d’Italia, dove il sentimento del tempo e dello spazio è così prossimo a quello arabo, città rurali che hanno assaporato di recente l’ebbrezza delle sommosse, potrebbero apprendere in fretta ad imitare le insurrezioni arabe, andando così al fondo delle cose. Se avvenisse … ma chi può dirlo?

X). Caveat.

Chiudendo queste note ci risuona in testa un caveat che ci impedisce di concludere, ci risuona dentro la prosa poetica di Isacco Babel, l’ebreo russo che di rivoluzione se ne intendeva. Le sue parole recitano, più o meno, così: Gedali, guardiano di Sinagoga , ebreo polacco, gettato senza colpa, con il suo borgo contadino, tra la rivoluzione dell’Armata a cavallo e la controrivoluzione della piccola nobiltà polacca,sognatore di una rivoluzione impossibile -- opera buona che non vuole orfani in casa-- borbotta il suo malessere, andando a letto al mattino, al primo sorgere di Venere; borbotta e si chiede tra sé e sé: chi dirà a Gedali dove sta la rivoluzione e dove la controrivoluzione?
Franco Piperno, Aprile 2011