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venerdì 29 aprile 2011

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Rivoluzione, dalle radici della parola, ai significati nella modernità e nella contemporaneità - Rivoluzione: biografia di una parola

I). Premessa.

I disordini,i tumulti, le sommosse, le rivolte, gli episodi insurrezionali e perfino i momenti di guerra civile che si vanno svolgendo sotto i nostri occhi, dal Marocco allo Yemen, non convergono tra di loro, non sono ancora tali da far precipitare il mondo arabo nella rivoluzione. E certo, per tentare di comprendere, al di là della cronaca che stende un velo di banalità su tutte le cose, la via maestra consiste nell’analizzare criticamente quel che accade, disponendo, beninteso, delle informazioni di prima mano e, ancor di più, di una costellazione di strumenti concettuali, storici, etico-politici e economico-sociali, adeguati alla complessità della civiltà islamica.

A noi che non disponiamo, qui, di una simile strumentazione, questa strada, che è quella più breve, ci è preclusa. Ci siamo quindi risolti a percorrere un altro sentiero, nettamente più lungo e accidentato, una sorta di tratturo tortuoso che inizia da lontano e non garantisce che il cammino pervenga a buon fine. In altri termini, posti davanti alla potenziale rivoluzione araba, per nostra pochezza, piuttosto che esaminare la cosa, scruteremo la parola che la indica, accogliendo così un suggerimento prezioso di Walter Benjamin. Nel seguito, quindi, procederemo, prima, ad una ricostruzione qualche po’ accurata della etimologia ovvero della storia della parola “rivoluzione”; e solo successivamente , accresciuti dal racconto, torneremo sugli avvenimenti attuali, ancora in corso di farsi, per tentare di intravederne le linee di sviluppo.

II). Alla radice della parola.

Rivoluzione è una termine che viene dalla parola latina “revolutio” e indica il ritorno di un corpo celeste al punto di partenza, dal verbo d’azione “ revolvere”, girarsi indietro per compiere il proprio cammino, e.g. revolutio Solis. Si tratta quindi di un termine astronomico, dirò così gergale; infatti, nell’Alto Medioevo viene anche usato, dall’astrologia caratteriale cristiana e islamica - dove “pianeta di rivoluzione” sta a significare la posizione oroscopale di un pianeta lungo lo Zodiaco, contrapposto a “pianeta di natalità” che indica la collocazione, ricostruita col calcolo geometrico, del pianeta nel tema natale.

E’ intellettualmente intrigante notare come la parola “revolutio” non esistesse nel latino classico, malgrado che si sapesse già di sicuro dei moti periodici dei pianeti, gli “erranti attorno alla Terra”. Il termine compare, per la prima volta, negli scritti di Agostino, nel IV secolo della nostra era, ovvero nel basso latino, quando ormai la decadenza dell’impero romano è divenuta irreversibile. E’ probabile che la coniazione di questo nuova parola astronomica sia dovuta alla necessità di tradurre dal greco in latino la teoria astrologica di Tolomeo, predominante nel Mediterraneo a partire dal III secolo, che fa uso di un lessico tecnico assai più ricco di quello presente nel latino classico — si sa che Roma è stata grande in tutto, forse; ma, in astronomia, non di certo..

Il termine ricompare poi, con maggiore frequenza, a partire dal Duecento, con la ripresa generale degli studi astronomici, innescata dal contatto tra la comunità colta italiana e l’aristotelismo arabo; lo userà il dottor angelico, Tommaso d’Aquino, come gli astrologi alla corte di Federico II, nella Palermo sveva. Attraverso l’ordine dei Domenicani, si diffonderà nel latino scolastico di tutta Europa, sempre nel significato astrologico- astronomico. Dante la impiega, in latino, nel “Convito” e in volgare nella “Commedia”; e accadrà così nel Basso Medioevo per le altre lingue neo-latine. Qui mette conto notare che, per i medievali, fossero filosofi della natura o poeti, la parola rivoluzione, pur carica di simbolismi, è del tutto priva di ogni risonanza politica sovversiva — come accade, invece, per i moderni.

Quando, nel XV e XVI secolo, in conseguenza dei grandi viaggi e della necessità di emendare il calendario giuliano, precipita la crisi dell’astronomia medievale, nel dibattito che si apre tra aristotelici e tolemaici, la rivoluzione, e la misura del suo tempo, diviene il concetto centrale della contesa. Sui movimenti rivoluzionari dei pianeti scriveranno, con minuzia attenta, il bavarese Georg Peurbach, il veronese Girolamo Fracastoro e il cosentino Gian Battista Amici, “ammazzato nel miglior corso della sua età” perché caro al Cielo.

III). La rivoluzione diventa rivoluzionaria per metonimia ..

Poi, a metà del XVI secolo, viene stampato, a Norimberga, un trattato sul sistema del mondo che ha per titolo “ De Revolutionibus Orbium Coelestiun “ . Il libro è giustamente destinato a modificare il significato, in Occidente, della parola rivoluzione; infatti, il titolo, che è del tutto tecnico e perciò anodino, passerà a significare gli effetti teologici e scientifici prodotti, nei decenni successivi, dalla diffusione dal libro stesso; effetti non voluti che, per una sorta di metonimia, saranno nominati appunto rivoluzionari, intendendo con questo termine quel profondo sommovimento culturale con il quale ha inizio la modernità, tanto intesa come formazione politico-sociale quanto come nuova mentalità, trasformazione dell’interiorità, del senso comune.

L’autore, Niklas Koppernigk, latinizzato in Copernicus, è il canonico della Cattedrale di Frauenburg, città ai confini della cristianità di rito latino, in una terra incognita già contesa tra l’ordine dei Cavalieri Teutonici e il Regno di Polonia. Da giovane, l’astronomo aveva studiato la scienza dei cieli a Padova, ai tempi in cui quell’università era il più prestigioso luogo europeo per lo studio e l’elaborazione della filosofia naturale, nella tradizione aristotelico-averroista.

Copernico ha avuto modo solo “in extremis” di leggere le bozze del suo libro, sul letto di morte. Egli, come si conviene ad un polacco, era stato in vita un buon cattolico, fedele alla Chiesa di Roma. Tutto avrebbe potuto immaginare, sfogliando il suo libro per la prima e l’ultima volta, salvo che, un giorno lontano, due secoli e mezzo dopo, il sistema del mondo da lui stesso proposto - dove Dio non compariva perché era una ipotesi della quale aveva imparato a fare a meno -- avrebbe autorizzato Massimiliano Robespierre a fare a meno della monarchia borbonica, decapitando Luigi Capeto.

Infatti, come è risaputo, le rivoluzioni alle quali si riferisce il titolo del libro non sono quelle politico-sociali, che arriveranno solo nei secoli successivi. Il “De Revolutionibus”, come era d’uso tra gli astronomi, si occupa delle rivoluzioni planetarie, dei movimenti zodiacali dei pianeti a cui si è già accennato; la sola novità è che, per Copernico, essi sono ordinati attorno al Sole e non invece attorno alla Terra, come accadeva nell’ordine antico.

Per altro, la tesi eliocentrica non risultava poi così nuova; piuttosto, dirò così, era rinnovata; come scrive lo stesso Copernico era stata avanzata per tempo dagli antichi krotoniati; e ripresa, molto tempo dopo, senza i furori orfici dei pitagorici, in modi,dirò così, più ragionevoli, dall’astronomia ellenistica d’Alessandria.

Quel che decisamente distingue il “De Revolutionibus”, dagli altri sistemi eliocentrici precedentemente proposti, è l’inaspettata potenza esplicativa delle argomentazioni. Il canonico polacco riesce, come usava dire allora, a salvare i fenomeni celesti osservati, fossero gli stazionamenti, le retrogradazioni o il rapporto tra periodi sinodici e siderali, tutti ricostruiti a partire dalle loro cause. Ma soprattutto spiega molto bene, a livello di senso comune ma senza mai rinunciare al rigore del ragionamento geometrico, perché gli esseri umani non si accorgano, attraverso i sensi, di vivere su una immane sfera che ruota rapidamente attorno al suo asse e gira vorticosamente attorno al Sole.

Di per sé, il sistema del mondo esposto nel “De Revolutionibus” non avrebbe certo provocato la rivoluzione copernicana se fosse stato presentato come un modello matematico, utile per rendere più agevole il computo delle tavole astronomiche, ma senza alcuna pretesa fisica, di corrispondenza con la realtà dei cieli. Era questa del resto la dimensione dentro cui s’era accucciata con soddisfazione, per secoli, l’astronomia tolemaica, che non aveva avuto mai guai seri con le gerarchie ecclesiastiche.

Ma in Copernico, soprattutto nei suoi seguaci, v’era qualcosa di più: l’assunzione ontologica del sistema eliocentrico, il suo proporsi non come rappresentazione matematica bensì come descrizione fedele del mondo. Fu questa assunzione a provocare lo scontro con le variegate chiese cristiane, fossero cattoliche, anglicane, luterane o ortodosse. In verità, neanche questa epistemologia, dirò così, realista spiega fino in fondo, l’asprezza e la faziosità dello scontro ideologico, senza paragone, né in precedenza né per il seguito, nella storia della cultura scientifica occidentale. Per capire la veemenza di questa lotta d’idee, che a ben vedere è solo una diatriba tra dotti, bisogna tener conto del contesto, della contingenza: pressoché in contemporanea con l’avvento della astronomia copernicana, si era accesa, in Europa, la guerra di religione, tra le chiese riformate e quella cattolica, per l’egemonia nella cristianità.

Vediamo le cose più da vicino. Cattolici e protestanti si affrontano sanguinosamente ma hanno in comune la fede nello stesso criterio di verità : la parola rivelata, le sacre scritture. Non solo l’autorità delle chiese ma anche la legittimità del potere dei sovrani cristiani si fonda sulla verità della Bibbia.

La “nova astronomia”, quella eliocentrica, è del tutto estranea o meglio indifferente alla parola di Dio. Infatti, essa sarà considerata eretica da cattolici e riformati, che faranno a gara tra di loro per mandare al rogo i libri che la espongono, quando non i loro autori. I copernicani, per altro non sempre consapevolmente, propongono un altro criterio di verità, fondato sulla corrispondenza tra fenomeni e parole della lingua geometrica; criterio autonomo, quindi, anche se non necessariamente ostile a quello cristiano, dove la relazione corre tra fenomeni e parole della lingua di Dio. Si delinea così quel regime di doppia verità, quella religiosa e quella scientifica, destinato a perdurare fino ai giorni nostri.

Tuttavia questo registro di tolleranza epistemologica ha difficoltà ad imporsi all’ inizio perché la contingenza esaspera lo scontro, favorendo le posizioni estreme. Da una parte le chiese in guerra tra di loro, si rifanno entrambe alla Sacra Scrittura come fonte di legittimità; e per evitare di impantanarsi dentro un labirinto senza uscita di interpretazioni della parola biblica, si risolvono ad imporre una accettazione letterale, inevitabilmente rozza, delle affermazioni, qualche po’ fantasiose e poetiche, contenute nella Bibbia.

D’altro canto, i copernicani, per sopravvivere intellettualmente, esasperano il realismo fisico, anche questo un po’ ingenuo ma pur sempre il vero punto di forza, delle loro teorie astronomiche. Sicché, laddove la parola di Dio collide apertamente con quella della geometria, lo scontro è senza quartiere. Valga un esempio: nei Salmi di David si riportano degli interventi divini per accelerare il sorgere del Sole o rallentarne il tramonto; in un altro famoso passo biblico, un profeta, tra i più autorevoli, invoca la benevolenza di Dio per fermare il Sole. Dunque, secondo l’Antico Testamento, il Sole si muove – per inciso, non era necessario scomodare la parola di Dio per stabilire il movimento, infatti basta guardare la volta celeste per assicurarsi che il Sole si muove, oggi come ai tempi di David e a dispetto di quel che insegnano le nostre scuole.

Le chiese, tuttavia, non ricorreranno al conforto della esperienza comune, giacché Copernico aveva illustrato in modo esaustivo come questa potesse trarre in inganno; piuttosto, nel clima allucinato di quel ritorno, per lacrime e sangue, alla Bibbia, l’argomento sarà quello ultimo,che non ammette repliche: il ricorso alla verità di Dio trasmessa dai profeti. Così, agli occhi dei fedeli, il sistema eliocentrico che era anche elio statico, appare non solo eretico ma blasfemo, osando la parola di Copernico confrontarsi con quella di Dio.

Detto altrimenti, ciò che le chiese temevano, ed è poi accaduto, era che la messa in dubbio, anche una sola volta su un solo punto, fosse pure di filosofia naturale, dell’autorità delle Scritture avrebbe comportato una grave lacerazione della comune concezione etico-politica ben al di là del cerchio ristretto dei filosofi e dei teologi. Abbiamo già notato che, in quei tempi, la legittimazione e l’interiorizzazione del dominio, del trono come dell’altare, riposassero, in ultima analisi, sulla rivelazione biblica.

IV). La rivoluzione scientifica.

I copernicani, a loro volta, non volendo rinunciare al loro sistema del mondo si videro costretti ad approfondire l’assunzione ontologica, gli aspetti propriamente fisici della teoria -- ovvero la sua corrispondenza con la realtà dei cieli. Ora, l’astronomia “nova” richiedeva una nuova fisica, dal momento che quella tradizionale, in particolare quella aristotelica della gravitazione, postulava un geocentrismo statico incompatibile con il sistema eliocentrico. In altri termini, si apre, con Copernico uno sforzo di pensiero dentro cui si situerà Galileo, l’italiano geniale che inventerà il metodo sperimentale, l’uso degli strumenti di misura, in primis il cannocchiale, per verificare o falsificare le teorie; poi Keplero, il tedesco dalla interiorità abissale, che comporrà le leggi della nuova astronomia quasi fossero spartiti musicali; infine per ultimo ma non ultimo l’inglese Newton che, con saggezza qualche po’ saturnina, darà i principi matematici della nuova fisica.

Ecco, nasce così la tecno-scienza, satura di numeri e di misure, che modificherà profondamente, con le sue innovazioni strumentali, il rapporto tra l’uomo occidentale e la natura, trasformando, via via, la vita quotidiana in un modo che mai s’ era dato prima nella storia dell’Europa.

Noi, oggi, riguardando all’indietro quel periodo, lo chiamiamo “rivoluzione scientifica” e lo facciamo partire giustamente dal “De Revolutionibus” di Copernico. Dopo, noi sappiamo, sono sopravenute la rivoluzione industriale e quella politica; e questo ci fa comprendere quale potenza semantica si nascondesse fin dall’inizio nell’astronomia copernicana. Possiamo dire che, per l’essenziale,la modernità nasce dalle rivoluzioni celesti del canonico polacco così come diciamo che il cristianesimo prende le sue origini dalle parole divine riportate nei Vangeli— come si vede, in Occidente, la verità usa venire dal Cielo.

Mette conto ripetere qui che lo scontro, tra cosmologi e teologi del XVI secolo, coinvolge una piccola frazione della comunità colta europea; la quale a sua volta è, nel suo insieme, una trascurabile minoranza della popolazione. Per paradossale che possa sembrare, questa diatriba, vivace certo ma in fondo specializzata e zeppa d’argomenti bizantini, ha innescato, in un giro di tempo relativamente breve, con un processo a valanga, quei radicali mutamenti cognitivi, politici e sociali che hanno costituito, nel loro convergere, la mentalità moderna, quella attraverso la quale ancora oggi interroghiamo la natura ed interpretiamo il mondo; quella stessa, però, che ci nasconde alcune delle altre dimensioni della natura e potenzialità del mondo.

V). La definizione di rivoluzione: differenza e ripetizione.

Cerchiamo, ora, di sintetizzare le caratteristiche che definiscono il significato della moderna parola”rivoluzione”, quali emergono dalla sua origine, dalla rivoluzione copernicana appunto.

Per prima cosa, v’è l’accumularsi del sapere sociale che deborda dai vecchi paradigmi cognitivi – l’espansione delle città, lo sviluppo dei commerci, i viaggi transoceanici, il computo del calendario, l’attività artigianale degli orologiai interrogano e mettono in crisi la concezione tolemaica del tempo astronomico. Viene poi l’elaborazione di nuovi paradigmi scientifici in grado di ricondurre ad unità gli interrogativi dando loro una risposta socialmente adeguata perché tecnicamente perfetta – il successo nella matematizzazione dell’astronomia e dei saperi artigiani. Ancora, l’affermarsi dell’autonomia della conoscenza rispetto ai saperi sacerdotali — la rivoluzione copernicana produce esodo semantico, si colloca oltre la guerra religiosa tra Riforma e Contro Riforma; ha la sua origine in Polonia e Italia piuttosto che in Germania e Spagna.

Bisogno collettivo di conoscenza, capacità di rispondere creativamente a questo bisogno richiamando la memoria condivisa, mobilitazione delle moltitudini sul terreno della violenza di massa, sono questi, ci sembra, gli ingredienti della rivoluzione nel senso moderno della parola. Questi certo; ma con in più, decisiva ed imponderabile, la mano invisibile del caso che tutto rimescola.

La rivoluzione è una idea nonché una prassi collettiva autenticamente moderna – nel mondo antico è impraticabile perché è senza none. Ma questa differenza vela la ripetizione— è evidente che esistono similitudini ed analogie tra la rivoluzione moderna e i tumulti, le sommosse, le rivolte, le insurrezioni, le guerre civili; e, soprattutto, i movimenti religiosi che scandiscono il tempo antico e medievale. Ma per quanto appropriate possano essere queste similitudini, per quanto efficaci le analogie, resta irriducibile la differenza.

Intanto, come si è visto, la rivoluzione è una metonimia dove il titolo dell’opera sta per gli effetti dell’opera stessa; insomma, si può davvero riconoscerla solo quando è ormai terminata. E poi, essa, certo, comporta, rivolte, sommosse, insurrezioni e perfino guerre; ma, dirò così, pur attraversandole tutte le trascende. Semmai, per i sommovimenti interiori che produce, ha una parentela celata, con i movimenti religiosi; ma anche qui persiste caparbia la differenza, perché le nuove religioni richiedano l’apparizione di un Dio, come per i cristiani, o almeno, più modestamente ,di un suo profeta, come per gli islamici—e questi sono, dobbiamo riconoscerlo, eventi piuttosto rari, e.g. sono quasi millecinquecento anni che in Europa non appare nessun Dio e neanche un suo profeta.

La rivoluzione moderna non ha l’autorizzazione divina; è una opera fragile, creaturale , consapevolmente affidata alle capacità di cooperazione intelligente tra le donne e gli uomini; una opera buona fatta da gente comune, sempre esposta agli errori, difettosa come un bimba malnata; eppure saggia, in senso moderno, perché capace d’apprendere dai propri errori. Insomma proprio perché la rivoluzione può fare a meno di Dio, dei suoi profeti e perfino degli eroi essa può rifiutarsi di vivere nell’attesa, può strappare la gioia al futuro e dilatare il presente fino a comprendere passato e futuro come qualità del presente, secondo il detto biblico: prima che Abramo fosse, io sono.

VI). La rivoluzione sprofonda e poi riemerge.

Poi, per oltre due secoli, la parola “rivoluzione” andrà perduta, scomparirà dalla lingua scritta; salvo che, beninteso, dai libri di filosofia naturale, dove precipiterà allo stato semantico iniziale, come termine tecnico dell’astronomia.

Riaffiorerà in Francia nell’89 parigino; e là mostrerà la sua fertilità lessicale partorendo subito un sostantivo “revolutionaire”, un verbo d’azione “revolutioner”, e poi di seguitp “contra revolution” ( Mirabeau 1790), “controrevolutioner” ( Danton 1792) e perfino “ultrarevolutioner” (1794) – quest’ultimo nella accezione italiana odierna, di “volscio”, ossia estremista invasato con l’aggravante della buona fede.

Qui si presenta una obiezione. In effetti, quello tra i nostri quattro lettori, che ha letto più di dieci libri, potrebbe rimproverarci che, nella ricostruzione della biografia della rivoluzione, abbiamo maldestramente scordato il precoce suo soggiorno nei paesi anglosassoni. Raccontano, infatti, i libri di storia che, prima di quella francese, di rivoluzioni ve ne è stata una , anzi due, in Inghilterra, nel 1640 e nel 1688 ; ed ancora una altra, un secolo dopo circa, nell’America del Nord. Ma noi, qualora venisse avanzata questa obiezione dal nostro lettore colto, la rigetteremmo, con fermezza e cortesia, come non pertinente. Vediamo perché. Intanto, la parola inglese “revolution”, nel senso politico-sociale, è un calco della corrispondente parola francese “revolution”; questo vuol dire che i protagonisti delle cosi dette rivoluzioni anglosassoni non si consideravano certo rivoluzionari, mancando loro la giusta parola -- essa, infatti, sarà coniata in Francia, nel secolo successivo , come abbiamo già notato.

Infatti, solo a partire dalla metà del XIX secolo la storiografia liberale britannica adopererà la parola per caratterizzare dapprima esclusivamente gli avvenimenti inglesi del 1688, ovvero la deposizione di Giacomo II e l’ascesa al trono, imposta dal Parlamento, di Guglielmo III d’Orange; anzi a questo episodio esangue verrà dato addirittura il nome di “Rivoluzione Gloriosa”, dove l’aggettivazione pomposa intende esaltare l’assenza di violenza di massa, in contrapposizione polemica con i moti rivoluzionari di Francia.

Successivamente, ormai nel XX secolo, per merito della storiografia socialistica britannica, anche per gli eventi inglesi del periodo 1640-60 – lo scontro sanguinoso tra i soldati del Re e quelli del Parlamento e,a seguire, la lunga dittatura di Cromwell - verrà certificata la natura rivoluzionaria, dirò così, amplificando a dismisura il ruolo, del tutto testimoniale, di “livellatori” e “zappatori”. Dal nostro punto di vista, quella del 1688 fu’ una modesta cospirazione dinastica, del tipo, ha scritto Raymond Aron, “ togliti di là che mi ci metto io”; la discontinuità dinastica, infatti, ebbe conseguenze rilevanti nella formazione del sistema rappresentativo inglese, ma risultò del tutto ininfluente sulla mentalità delle moltitudini e la distribuzione della ricchezza sociale.

Quanto al ventennio repubblicano 1640-60, che pure ha visto la decapitazione del Re, è per noi assimilabile, piuttosto che ad una rivoluzione, ad una guerra di religione scoppiata tra anglicani e presbiteriani; la presenza, in quel periodo, di tentazioni democratico-- egualitari e perfino comunistiche, se attesta la complessità politica del movimento presbiteriano, non ha una massa critica tale da comportare una qualche rottura culturale o socio-economica significativa.

Infine, la così detta rivoluzione americana costituisce, in verità, l’archetipo della moderna guerra d’indipendenza nazionale - fatto puramente politico che non comporta alcun mutamento sociale o anche solo culturale.

Torniamo dunque alla vera e grande rivoluzione, quella francese. Qui compare, per la prima volta dai tempi del “De Revolutionibus”, una sorta di autocoscienza soggettiva della prassi rivoluzionaria; intendiamo dire, che la parola “rivoluzione” –nel significato di radicale e rapido mutamento dell’ordine costituito – non viene usata per valutare” ex-post” un processo storico ormai compiuto, come era accaduto con il copernicanesimo; al contrario, nella Parigi dei primi anni novanta del XVIII secolo, la rivoluzione sta a significare la volontà “ ex-ante” di compierla, è divenuta progetto di mutamento, radicale e rapido, consapevole di sé. Nelle parole dei protagonisti possiamo cogliere la pienezza semantica conseguita dall’idea di rivoluzione: essa è una violenta restaurazione della giustizia e della libertà che già vigevano in un tempo passato, ancorché imprecisato, e.g. “ Definisco la rivoluzione come il ritorno della Legge, la restaurazione del Diritto, la reazione della Giustizia” ( Marat, 1790); e ancora “ La Rivoluzione è la guerra cruenta della libertà contro i suoi nemici” (Robespierre,1791).

Questa raggiunta pienezza semantica—restaurazione violenta di un ordine giusto già dispiegato almeno una volta nella storia—assicura una tale intensità al processo rivoluzionario da contrarre vertiginosamente il suo tempo di vita; sicché, nel volgere di un decennio, compie l’intero ciclo: dalla fase iniziale politicamente liberale, attraverso una brusca radicalizzazione democratico-giacobina che comporta il Terrore, si giunge col Direttorio ad una stabilizzazione moderata, per poi cadere all’indietro nella dittatura militare di Napoleone e quindi precipitare senza scampo nella controrivoluzione.

La modulazione del processo rivoluzionario, una sorta d’imprinting iniziale, si ritroverà intatto nelle altre rivoluzioni che seguiranno quella francese lungo gli anni che verranno da allora ad oggi; fino al punto che, se noi osserviamo, con l’occhio della mente, il corso della storia occidentale nel medio-lungo periodo, possiamo usare la presenza di quelle fasi, in un ciclo trasformativo, come regola storiografica per distinguere la rivoluzione dalle ribellioni e dalle rivolte.

Soccorrono qui, ad ammonirci sulla enigmatica sensatezza del tutto, i versi cupi, ma disperatamente lucidi, di Paul Valery che suonano, nel ricordo, grosso modo così : la rivoluzione compie, l’opera di cento anni, in dieci giorni o forse più / e perde, l’opera di dieci secoli, in dieci anni o forse più.

VII). Rivoluzione e tradizione.

Le forme ammalianti della rivoluzione moderna si riconoscono agevolmente nel “48 europeo, nella Comune di Parigi del “70, nell’Ottobre Rosso del “17; infine, nel “68 europeo, quando un lungo ciclo si chiude e la rivoluzione torna in Francia; e là attende, paziente, di nuovo, la sua Comune.

Un tratto distintivo di queste rivoluzioni sta nel nesso tra mutamento e tradizione, nesso che istituiscono col gesto sovrano di riappropriarsi di una potenzialità collettivamente posseduta, la facoltà dell’agire violento.

A ben vedere, l’intreccio tra innovazione e tradizione è un tema cruciale di tutte le grandi esperienze trasformative del senso comune, della mentalità collettiva. Infatti, i tentativi rivoluzionari, nel corso dei secoli passati, fossero essi riusciti o rovinosamente falliti, hanno cercato, con caparbietà, di rievocare la memoria, secondo una attitudine a risarcire la verità che era già apparsa, almeno una volta, nel passato. Si è trattato, in ogni caso, di una restaurazione della giustizia che già vigeva all’origine, c’era già stata anche se poi s’era perduta; insomma un ritorno alla verità o meglio un nuovo suo svelamento. E’ come se la parola rivoluzione, nel significato politico-sociale che essa ha assunto nella modernità, custodisse latente nel suo seno l’etimo astronomico,” il ritorno al luogo dal quale si è partiti “.

Per esempio, le eresie nell’ Occidente medievale, le “scelte religiose”, in un modo o nell’altro, risalgono, o almeno alludono, alle comunità primigenie, al cristianesimo delle origini, quello della catacomba. Là, in un luogo notturno, dionisiaco, si svolge l’esodo dei fedeli dal futuro, dalla tirannia dell’attesa; e si vive, fin da subito, la buona novella annunciata dai Vangeli, la pienezza vitale dei corpi in comunanza sensuale -- Gesù, morto per salvare il figlio dell’uomo, è già risorto; e il figlio dell’uomo è ormai salvo.

Vi sono, ben inteso, altri esempi, dirò così, più laici, a sostegno di quel che andiamo dicendo. I movimenti repubblicani, in Occidente, hanno tratto ispirazione dalla Roma repubblicana: è accaduto per i Comuni medioevali, come per la Grande Rivoluzione francese; ma anche per la Comune di Parigi e perfino per la Rivoluzione russa.

Lo stesso Marx, del resto, sembra attribuire un significato decisivo al rapporto uterino tra trasformazione sociale e memoria collettiva; valga come esempio, quel suo concetto, elaborato con l’aiuto di Engels, di “comunismo primitivo” che suona come un ossimoro. L’ipotesi che sostiene quel concetto è che, se una forma di vita sociale c’è già stata, allora può sempre nuovamente tornare. Viceversa, tentare di fabbricare una relazione umana, nuovissima, mai vista prima, vale come ululare alla luna perché ci aiuti, fiducia superstiziosa nel futuro, insomma una illusione cognitiva. Una cosa può accadere ora se è già accaduta prima; ma se la forma di vita alla quale si tende è utopica, non ha mai avuto luogo, se, come canta il poeta, di essa “ non v’è traccia presso l’antico egizio o l’astuto caldeo, se è stata ignorata dall’audace fenicio come dal sibarita gaudente, se è sfuggita al greco smaliziato e all’orgoglioso romano, se è stata tenuta in nessun conto dal barbaro crudele ed indolente come dal raffinato bizantino, dal mussulmano invasato come dal crociato freddo e pio”; allora se è andata così, inseguire l’utopia è una evasione immaginaria dalla noia accidiosa nella quale trascorre il presente.

Marx soleva dire, non senza sarcasmo, che bisognava rifiutarsi di fabbricare pignatte per le minestre del futuro; e, viceversa, mostrava un vivo interesse per le forme di vita altra, del passato e del presente, quelle che l’antropologia culturale veniva scoprendo, nella seconda metà del XIX secolo; si pensi all’attenzione premonitrice con la quale vengono seguiti, da Marx come da Engels, gli studi di L.H.Morgan sui nativi del Nord America – questi studi costituiranno l’orizzonte dentro cui s’iscrive il libro “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”, dove appunto viene elaborata la categoria logico – storica di “comunismo primitivo”.

Sempre Marx ma ormai maturo, purgato da ogni adolescenziale futurismo, nei suoi ultimi scritti, sul modo di produzione asiatico, sostiene, senza alcun ipocrita ritegno, che certo vi sono più elementi, dirò così, di comunismo nella vita quotidiana del Mir russo – il villaggio del servaggio contadino che si autogoverna-- di quanti ne contenga il programma o la condotta della socialdemocrazia tedesca ,che pure a lui s’ispira.

Dunque, un primo tratto distintivo della rivoluzione è un suo richiamo, più o meno mitico, all’esperienze del passato; si tratta, a ben vedere,di ampliare la memoria comune , di disporre di un tempo presente più ampio— vivere, qui ed ora, la dimensione della lunga durata. La rivoluzione non è l’apparizione miracolosa dell’assolutamente nuovo, della futura umanità, come vuole il canto francese dell’homo laborans. Piuttosto, la società presente nutre nel suo seno una alternativa, una altra umanità; e non ha che da riaffiorare nella coscienza collettiva per passare dal potenziale all’attuale; e il passaggio è la rivoluzione propriamente detta. Ora perché questo passaggio abbia luogo non basta predicare la verità; occorre sporcarsi le mani, agire la violenza, quella sociale.

VIII). La violenza rivoluzionaria.

Qui siamo di fronte all’altro tratto distintivo della rivoluzione, che la rende di natura diversa tanto dai movimenti religiosi quanto dalle pratiche laiche dell’irenismo pedagogico socialdemocratico - intento a conseguire lo scopo come di soppiatto, centellinando il mutamento senza disturbare la pace sociale, magari chiedendo aiuto al progresso scientifico.

Insomma, non basta possedere la verità, occorre comunicarla, far sì che venga riconosciuta e condivisa. Ed è qui che irrompe sulla scena, legittimamente, la violenza, quella collettiva, sociale. Niente, neanche l’arte, ha la potenza comunicativa che è propria a questa forma suprema di cooperazione umana. La violenza collettiva, come il brontolio profondo del terremoto,quando s’annuncia vola poi veloce di bocca in bocca; scuotendo, dall’interiorità la più profonda, certezze ed abitudini quotidiane; e pone la comunità umana nella dura necessità di scegliere. E questo con ragione, perché si tratta di una esperienza catartica dell’individuo sociale che accomuna tanto coloro che la violenza la infliggono quanto quelli che la subiscono.

Essa non è il mezzo più affilato e rapido per vincere, come sciaguratamente ritengono i “begriffi” generosi che praticano l’omicidio politico – al contrario, su questo terreno, la storia ha mostrato che spesso è la via più sicura che mena direttamente alla sconfitta politica e l’annientamento fisico.

La violenza sociale – mettere a rischio per un sentimento ideale, spartito tra le moltitudini, il proprio e l’altrui corpo, sacrificare la carnalità empirica all’astrazione determinata – non ha uno scopo esterno al suo farsi; essa è compiuta in sé, mezzo e fine ad un tempo. I suoi protagonisti, più che cambiare il mondo mutano le loro idee sul mondo, si liberano da quei ceppi della mente, da quella ideologia servile che lascia trascorrere la vita civile nell’attesa, reificando il futuro— viceversa, l’avvenire è già qui, è solo un predicato del presente.

Si badi, qui la violenza sociale, proprio perché non è un mezzo ma un modo d’essere, non può essere valutata, nella sua efficacia, tramite le forme che assume, ribellione aggressiva o disobbedienza passiva, impropriamente detta non-violenza. Perché la violenza sociale può conseguire il massimo della sua potenza senza neppure attualizzarsi, al solo suo annunciarsi, attraverso la cattiveria sognante del gesto simbolico; così accade quando migliaia di manifestanti assediano a mani nude il corpo del tiranno nel suo stesso palazzo, soffocandolo senza neppure toccarlo, sottraendogli ossigeno con la loro sola presenza, come fanno le api con il fuco.

In ultima analisi, rievocare la potenzialità collettiva dell’agire violento non è altro che la riappropriarsi di un bene comune, una potenza conferita all’individuo sociale direttamente dalla natura, congenita all’abitare, allo spartire insieme lo stesso luogo; insomma, è una costituzione di sovranità che si legittima col suo solo manifestarsi; giacché il suo potere costituente non ha a fondamento il consenso ma la partecipazione-- l’efficacia con la quale interpreta, dirò così, la volontà generale delle moltitudini.

Per concludere su questo punto, la rivoluzione, quale emerge nella esperienza occidentale, abbisogna, in prima approssimazione, di due precondizioni decisive: risarcimento della memoria e disponibilità di massa ad usare violenza. Ma non basta la presenza di questi due fattori; occorre che la loro miscela avvenga nella giusta proporzione; e che la sorte sia benigna. Questo è, di tutta evidenza, un lavoro da orafi, attiene all’arte, ad una arte particolare: qui, l’artista è un soggetto collettivo - una arte di massa quindi, moltitudinaria, dove l’artista ignora lui stesso la forma finale che assumerà l’opera sua, posto che riesca a portarla a compimento.

IX). Sulla rivoluzione araba.

Gli eventi che si vanno svolgendo in questi mesi nel mondo arabo sono punteggiati da tumulti, rivolte, sommosse, e perfino momenti insurrezionali ed episodi di guerra civile. Ma per quanto benevola possa essere la valutazione, questi eventi non sembrano ancora convergere nella rivoluzione. Infatti c’è la violenza sociale ma manca la memoria, l’avvenimento mitico incastonato nel passato dal quale trarre fiducia e autostima di massa.

Diciamo meglio : nel mondo arabo,solo il movimento fondamentalista islamico possiede memoria, rifacendosi alla parola di Dio raccolta dal Profeta— ed in questo consiste l’egemonia sotterranea che a tutto oggi esercita. Le altre moltitudini, in particolare i giovani istruiti per il lavoro industriale in una società povera d’industrie, sono smarriti, senza memoria —non possono rivendicare per loro, senza cadere nel raccapriccio, la storia di chi li ha dominati, l’imperialismo dei diritti umani, l’Inghilterra per gli egiziani, la Francia per i maghrebini, l’Italia per i cirenaici. Sicché, allo stato attuale delle cose, la rivoluzione araba sarà fondamentalista o non sarà.

Vi sono però dei segni, appena leggibili, che sembrano andare in una direzione diversa. Per la prima volta, dai tempi della cacciata dei francesi dall’Algeria, i movimenti sociali, sulla costa settentrionale dell’Africa, non sono organizzati per tribù ma per città, anzi per luoghi. Le cronache ci parlano di Casablanca, Algeri, Tunisi,Biserta,Tripoli, Bengasi,Gerba,Tobruk fino al Cairo e oltre – sono questi i soggetti dell’agire, e non le tribù, che certo perseguono le loro strategie ma con ruolo meramente suppletivo.

In queste città, i giovani, che costituiscono la maggioranza relativa della popolazione, sono stati istruiti, a livello di massa, per ruoli lavorativi di tipo tecnico industriale; ma questi ruoli,modellati su quelli europei, in questi paesi hanno una esistenza rara e precaria. Infatti, il mondo arabo, per sua fortuna, non è ancora una società moderna. Così la produzione e lo scambio si svolgono prevalentemente in forme sociali che non sono capitalistiche; in altri termini, sono stati addestrati dei lavoratori salariati per una società dove il salario non c’è o quasi. In questa condizione di insensata astrattezza, lo smarrimento anzi lo spaesamento,la difficoltà di riconoscersi nei luoghi della quotidianità, in breve, di dare un senso comune alla vita civile; questa difficoltà è un sentimento che appartiene a tutte le moltitudini, ma in particolare ai giovani, che privi di memoria, stentano a ricondurre ad unità la loro esperienza, a progettarsi raccontandosi; insomma, non sanno chi sono o meglio sanno di non avere identità, di non essere persone, ma solo corpi senza lavoro, disoccupati addestrati ad occupazioni che sistematicamente si rivelano assenti.

E’ una sofferenza dell’anima, psichica, che deriva paradossalmente da una certa abbondanza mercantile e non già dalla mancanza del pane e dai morsi della fame—qui gli slogan sulla “rivolta del pane” attestano la carica simbolica che possiede il pane per la vita urbana e non il suo contenuto calorico; molti di quei giovani, per dirla tutta, sono, infatti, ostentatamente obesi.

In queste condizioni, può scattare un istinto animale, il bisogno lancinante di realtà, che porta a rovesciare l’astrazione indeterminata per privilegiare il luogo e la presenza; antidoti potenti al globalismo universale, che in quei paesi ha provocato lo stravolgimento dei luoghi, rendendo paradossale la vita urbana : nei negozi della città non manca niente, ma il cittadino vive nella angoscia di una indigenza immaginaria-- la gente, come scrivono con un inconsapevole paradosso i giornali, da anni non arriva alla fine del mese.

V’è quindi una memoria da rievocare, una tradizione autentica, diciamo così, averroista da contrapporre al fondamentalismo islamico come all’imperialismo dei diritti umani. Se avvenisse la congiunzione araba tra memoria e violenza allora il vento della Rivoluzione soffierebbe in Europa dal profondo Sud; e le città meridiane d’Italia, dove il sentimento del tempo e dello spazio è così prossimo a quello arabo, città rurali che hanno assaporato di recente l’ebbrezza delle sommosse, potrebbero apprendere in fretta ad imitare le insurrezioni arabe, andando così al fondo delle cose. Se avvenisse … ma chi può dirlo?

X). Caveat.

Chiudendo queste note ci risuona in testa un caveat che ci impedisce di concludere, ci risuona dentro la prosa poetica di Isacco Babel, l’ebreo russo che di rivoluzione se ne intendeva. Le sue parole recitano, più o meno, così: Gedali, guardiano di Sinagoga , ebreo polacco, gettato senza colpa, con il suo borgo contadino, tra la rivoluzione dell’Armata a cavallo e la controrivoluzione della piccola nobiltà polacca,sognatore di una rivoluzione impossibile -- opera buona che non vuole orfani in casa-- borbotta il suo malessere, andando a letto al mattino, al primo sorgere di Venere; borbotta e si chiede tra sé e sé: chi dirà a Gedali dove sta la rivoluzione e dove la controrivoluzione?
Franco Piperno, Aprile 2011

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